Cultura e Spettacoli

"L'uomo più che sapiens è narrans, vive di scrittura"

Il critico e poeta ci spiega perché "la letteratura genera ponti, significati. Non possiamo fare senza"

"L'uomo più che sapiens è narrans, vive di scrittura"

Il nome di Flavio Santi (classe 1973) l'ho incontrato la prima volta su un libro di Enzo Siciliano. Si trattava di Prima della poesia, un saggio militante che lo scrittore e intellettuale romano aveva pubblicato nel 1965 in polemica con la neoavanguardia e che Santi aveva deciso di far ripubblicare e introdurre, a quarant'anni di distanza, con una piccola e coraggiosa casa editrice purtroppo scomparsa, Quiritta. Già da lì si capiva il rapporto che il poeta, scrittore, traduttore di origini friulane aveva con i maestri e con la letteratura in generale. Un rapporto direi di gratitudine e al contempo di grande consapevolezza. In un momento in cui la sua e la mia generazione fanno tabula rasa della tradizione e della propria storia, convinti che non ci sia altra letteratura che quella contemporanea statunitense (imparata nelle scuole di scrittura), lui studia filologia classica e moderna, ma senza il vizio tutto accademico di porsi fuori dal proprio tempo, ma tenendola in vita sapendo quanto sia necessaria per comprendere il mondo in cui viviamo. Da questa convinzione nascono libri saggistici come Aspettando Superman. Storia non convenzionale dei supereroi (Gaffi, 2013), in cui costruiva un percorso dagli eroi del mondo classico ai fumetti, fino ai feticci del contemporaneo. O ancora il libro di versi Mappe del genere umano (Sheiwiller, 2012), dove la voce del poeta era l'incarnazione di un clone di Giacomo Leopardi. Nella sua ultima opera di versi, che si è aggiudicata il Premio Viareggio per la poesia - Quanti. (Truciolature, scie, onde, 1999-2019), Industria letteraria - comprendiamo quanto il dialogo con il passato sia anche lo spazio che l'immaginazione si concede non tanto come rifugio dal presente, ma come possibilità di comprenderlo.

Pier Paolo Pasolini, Vittorio Sereni, Luciano Bianciardi, cito tre nomi che mi sembrano molto presenti in quello che scrive. Crede che possano dirci ancora qualcosa sul mondo di oggi? Non le sembra il nostro tempo totalmente trasformato da quello in cui vivevano e scrivevano loro?

«Sono tre fari, tre scrittori che incarnano tre attitudini sempre valide e illuminanti: Pasolini è il coraggio e la visceralità; Sereni la lucidità e la misura (Sereni pubblicò quattro raccolte di poesie in tutto); Bianciardi il rapporto con la traduzione e l'editoria. Sono questioni sempre attuali, anzi imprescindibili».

Il suo rapporto con la tradizione è molto stretto. E non parlo solamente dei suoi studi filologici e delle numerose cure e traduzioni di classici, ma anche del recupero del friulano, che spesso ha utilizzato.

«Il fulcro della letteratura (ma dell'arte in generale) è espressivo: devi trovare una lingua che sia tua ma allo stesso tempo di altri, nuova e antica insieme. La tua voce. Gli argomenti, alla fine, sono sempre gli stessi: i tria magnalia di cui parlava Dante in fondo, amore, vita e morte, declinati e combinati variamente, ma sempre quelli sono. La vera sfida è il come, non il cosa. Il friulano è stato (ed è) una potente alternativa all'italiano, io da lì vengo, dalle colline dove sorge il castello di Ippolito Nievo, dove per secoli si è parlato in friulano, in rappresentanza anche di un mondo, quello contadino, terragno, viscerale, diretto, anche spietato, ormai finito».

Veniamo al suo ultimo libro, Quanti, che rimanda al mondo della fisica. Quale immaginario le ha aperto la scienza?

«Torniamo a Sereni: lucidità e misura. Pensa ai saggi scientifici (a me alla fine interessa l'aspetto espressivo): scritti collettivamente e di pochissime pagine, massimo dieci, con una tesi da dimostrare. E ora pensa ai saggi di letteratura: scritti individualmente, lunghissimi, spesso senza una vera idea».

Si percepisce, nel libro, un sentimento fortissimo di fine. Fine della storia, della cultura, della civiltà Occidentale. Quasi temessi che tutto quello che stiamo vivendo scompaia, come vivessimo istanti senza memoria

«Philip Roth diceva che la letteratura è la più grande causa persa dell'umanità. A me piacciono le sfide (e le cause perse). Comunque l'uomo non è solo sapiens, ma anche e soprattutto (come spiegava bene Nabokov) narrans: noi ci siamo evoluti perché siamo in grado di raccontare storie. Noi siamo fatti di storie, di narrazione, traduzione, scambi di significati e significanti.

Eppure c'è un elemento che ti contraddistingue, direi addirittura una nota di carattere. Parlo dell'ironia. Sembri continuamente dire: «d'accordo, è tutto finito, ma non prendiamola troppo sul serio»

«Proprio come diceva un altro mio faro, il poeta inglese Auden: Fare le cose sul serio, senza prendersi troppo sul serio. In questo modo si conserva anche una visione critica sui propri scritti. Se ci pensi, nessun romanzo (o libro di poesia) ha mai cambiato la storia. I saggi sì (l'idea non è mia, ma di Houellebecq, amo citare le fonti, altra cosa che ti insegna la scienza). Il capitale di Marx, i trattati di psicanalisi di Freud ecc. Eppure, nonostante tutto, la letteratura è essenziale. Senza la letteratura non ci sarebbe vita sulla Terra. È come l'ossigeno».

Cosa ha rappresentato per te, per la tua vita, la letteratura? E quale peso, valore ha oggi, in questa società in cui tutto passa e si dimentica?

«Io mi sento un pontefice nel senso etimologico del termine per carità, un costruttore di ponti. Mi ha sempre affascinato l'architettura, un'arte che risponde direttamente ai bisogni dell'uomo, e in modo particolare l'architettura dei ponti. Non a caso Il ponte sulla Drina di Andric è tra i miei romanzi preferiti. Cerco di unire sponde spesso impervie e isolate tra loro: prosa e poesia, prosa d'arte e di consumo, critica militante e accademica, italiano e altre lingue, grande e piccola editoria, ecc. Non so fare altro: leggere innanzitutto, e poi tradurre e scrivere le due cose si equivalgono in un certo senso, lo diceva già Proust. Sarà pur vero che la letteratura è la più grande causa persa dell'umanità, ma senza di essa non ci sarebbe l'umanità.

Non ci saremmo noi».

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