A dirla tutta, c'è qualcosa di Paul McCartney che è rimasto intatto in tutti questi decenni: il gusto per la melodia. Basta ascoltare i primi versi di I don't know per rendersi conto che questo 75enne è rimasto probabilmente il miglior compositore di musica pop in circolazione, e non è un complimento per i più giovani. Se il suo nuovo Egypt station, che arriva cinque anni dopo New (ormai lui, come gli Stones, fa dischi per festeggiare i compleanni importanti) è sostanzialmente inattaccabile molto dipende dalla sua capacità di rimanere curioso senza però snaturarsi: Macca rimane Macca anche se scrive con Ryan Tedder dei super pompati One Republic il peggior pezzo del disco, ossia Fuh you con l'imbarazzante ritornello «I just want it fuh you» che andrebbe bene per una boy band. Dopotutto qualche vezzo bisogna concedere a questa superstar che è rimasta così longeva da fare i conti con il vero, spesso deprimente passaggio generazionale: dopo mezzo secolo di fama assoluta, ora i giovanissimi iniziano a non focalizzare bene Sir Paul McCartney e il ruolo decisivo che lui, con i Beatles e da solista, ha avuto nella musica popolare. Forse tra un altro mezzo secolo questo signore minuto, gentilissimo e ampiamente ritoccato dalla chirurgia estetica sarà considerato un classico come oggi George Gershwin. In pratica diventerà eterno.
Però oggi è per forza riservato a un pubblico più ristretto, in parte ancora attirato dal fascino Beatles e in parte (giustamente) convinto che la forma disco, ossia l'insieme di una abbondante decina di canzoni pubblicate contemporaneamente, abbia più capacità narrativa e più forza emotiva del semplice brano usa e getta destinato a sparire dopo tre mesi. Perciò nei sedici brani di questo Egypt station (la cui copertina riprende un dipinto di McCartney) c'è una altalena di stati d'animo che ruotano intorno alla ballata Hand in hand. Se il rituale attacco a Trump (Despite repeated warnings) ha un incedere quasi marziale e vagamente anni Ottanta, in Caesar rock Paul McCartney è quasi irriconoscibile, tanto è muscolare e vicino a uno stadium rock che piace molto ai quarantenni americani. Però è difficile perdere la concentrazione in questi 57 minuti di musica perché lui, vecchio maestro, ha costruito una scaletta di alti e bassi che impedisce la distrazione. La leggerezza (con arrangiamenti quasi lounge) di Back in Brazil compensa il piccolo capolavoro del disco, quella Dominoes che potrebbe uscire dal White Album dei Beatles ma non ha polvere addosso, è fresca, niente cicatrici della nostalgia.
Questo è Paul McCartney, signori, e di certo non può mettersi a suonare come Elton John o qualche ragazzo di belle speranze cresciuto a pane e Spotify. Però la sensazione diffusa è che il patrimonio da 1,3 miliardi di dollari e le decine di capolavori scritti non gli abbiano tolto il bene che rende più ricchi di tutti gli altri: la passione.
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