Il maestro dell'Arte Povera che non ha lasciato eredi

Nato in Grecia, si fece adottare da Roma. Qui espose per la prima volta rivoluzionando l'idea di spazio

Il maestro dell'Arte Povera che non ha lasciato eredi

A mezzo secolo dalla sua «invenzione», l'Arte Povera perde uno dei pezzi più importanti. Anzi, forse il migliore: talentuoso, magniloquente, barocco, monumentale, eccessivo. Jannis Kounellis è morto ieri a Roma, la città che lo adotta fin dagli studi in Accademia sotto la guida di Toti Scialoja, dopo che aveva lasciato Il Pireo, in Grecia, dove era nato nel 1936.

Un addio pesante per l'arte italiana, soprattutto alla luce del fatto che si cercano ancora gli eredi di quel movimento, o gruppo, che esattamente cinquant'anni fa riuscì a sconvolgere il panorama ancora legato all'Informale e dominato da figure solitarie e irripetibili quali Fontana e Burri, sposando in pieno la causa ideologica di una cultura sessantottina impregnata di politica dallo sguardo unilaterale, che poi in un tempo relativamente breve ha conquistato tutti i luoghi di potere, ha manovrato la stanza dei bottoni, imponendosi con una strategia tanto capillare quanto vincente. Alla fortuna critica è corrisposta quella del mercato e da militante l'Arte Povera si è trasformata in occupazione militare. Dopo, in pratica, il diluvio.

Kounellis, però, ha un interessante pregresso nell'area pop romana, la stessa in cui si sono affermati Schifano, Festa, Angeli e soprattutto Pino Pascali, scomparso troppo giovane nel 1968, lui sì figura di cesura tra due mondi. Allora Kounellis è ancora un pittore, e i suoi quadri, seppur asciutti ed essenziali, riportano in nero grandi lettere e numeri su fondo bianco. Sono semplici segni che non rimandano a un significato preciso e restano ancorati all'estetica dei primi anni '60 che guarda con molta curiosità dall'altra parte dell'oceano. Roma allora, complice Cinecittà, la Dolce Vita, i canti delle periferie pasoliniane, è davvero una città internazionale che ha stabilito un ponte continuo con l'America. Basti pensare alle gallerie che aprono nella Capitale: il giovane Kounellis espone giovanissimo alla Tartaruga, punto di riferimento delle avanguardie. Quindi, nel 1969, dopo l'approdo all'Arte Povera, presenta un'installazione davvero coraggiosa e innovativa, che per certi versi cambia radicalmente il rapporto tra l'arte e la rappresentazione.

All'Attico di Fabio Sargentini, gallerista, teatrante, demiurgo, complice, compagno di strada, Kounellis espone alcuni cavalli vivi, posizionati a distanza regolare dal muro come quadri o sculture. La realtà entra nello spazio dell'arte, perché non si può più ricorrere alla mimesi per fronteggiare l'urgenza di tempi nuovi. È la vita che pulsa, dunque, nei musei, imitare la natura non basta più. Con una performance discussa e criticata viene scritto uno dei tanti atti finali delle tecniche e dei linguaggi tradizionali. E finalmente si parla a pieno titolo di contemporaneo. Poi, con il crescente successo internazionale, le dimensioni aumentano fino all'ipertrofia di gesti tanto potenti quanto gratuiti, in un mostrare i muscoli che però non tradisce mai quella poetica distante anni luce dal minimalismo e dal concettuale, americano soprattutto. Kounellis è profondamente mediterraneo. Caldo, intenso, sceglie sempre materiali che si fanno testimoni di una lunga storia radicata nelle origini dell'uomo: il fuoco, i sacchi, il ferro, il caffè, il legno. È come se in lui Burri fosse definitivamente uscito dal quadro. Talvolta insiste nella scenografia, sorretto dall'indubbia capacità di misurarsi con le grandi dimensioni e stravolgere qualsiasi spazio. Manierato e stucchevole negli ultimi decenni, la zampata del vecchio leone non si fa però attendere a lungo. Meno leccato di Penone, meno mentale di Pistoletto, meno elegante di Anselmo, meno ironico di Boetti, Jannis Kounellis resta l'artista più potente del «giro» dei poveristi, complice il vivere a Roma, impossibile non fare i conti con la sua gloria passata. E il passato Kounellis non lo rimuove mai, soprattutto con la piena maturità. Anche gli interventi recenti, uno degli ultimi al Padiglione Italia nella Biennale di Venezia del 2015, si mangia buona parte di quei giovani artisti impauriti dalle sfide e rinchiusi su se stessi.

Aldilà delle considerazioni tattico-strategiche, tocca ammettere che l'Arte Povera ha imposto un numero significativo di talenti puri e di razza. Se ne è andato uno dei grandi del 900, e non ne restano più molti su questa terra.

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