L’infinita "Odissea di Berlioz" finisce sul palco della Scala

Sir Anthony Pappano dirige il capolavoro «Les Troyens» del compositore Un’opera «impossibile», con scenografie colossali e dal destino travagliato

L’infinita "Odissea di Berlioz" finisce sul palco della Scala

C'è un canale sotterraneo che lega direttamente la musica di Hector Berlioz, e in particolar modo il destino della sua opera più significativa, Les Troyens, all'Inghilterra. Quando Berlioz si accinse al grande progetto di musicare il primo e il quarto libro dell'amatissima Eneide (1856-9) era ormai considerato nella Francia di Napoleone III un musicista sorpassato, un relitto malinconico. Ebbe la gioia parziale di dirigerne qualche estratto e sentirne una parte (intitolata, La presa di Troia) in un teatro parigino minore.
Cadeva l'anno 1863. Poi, dopo tante illusioni perdute, venne, nel '69, la morte. Per la rinascita dell'opera passerà quasi un secolo: nel 1959 il Covent Garden di Londra trovò nel tenore canadese John Vickers l'interprete ideale per la formidabile parte di Enea.
«Quella produzione (Rafael Kubelík, direttore e John Gielgud, regista) ha avuto un effetto enorme, decisivo», conferma il maestro Antonio Pappano, attuale direttore musicale del teatro londinese, che abbiamo incontrato alla Scala durante le prove di quell'epopea musicale che è stata battezzata «l'Odissea di Berlioz», in riferimento all'omeriche dimensioni dell'opera e alle traversie del suo autore. Un viaggio che è passato spesso dal Regno Unito, prima attraverso l'apostolato che il compianto maestro Colin Davis ha riservato a tutta la musica di Berlioz; poi grazie ad eminenti studiosi come David Cairns e Hugh Macdonald (non dimentichiamo che in lingua italiana è disponibile dal 2010 una meravigliosa monografia su Berlioz e il suo tempo di Olga Visentini).
Oggi da Londra proviene lo spettacolo affascinante di David McVicar, in cui la corte di Priamo ed Ecuba indossa gli abiti di quella del Piccolo Napoleone e di Eugénie de Montijo, sovrani che non accolsero il voto di Berlioz di vedere rappresentata nel massimo teatro del paese la sua epica virgiliana in musica. Esecuzioni e approfondimenti passati hanno smentito il luogo comune che i Troyens non fossero rappresentabili, dimostrando che con interpreti adeguati, il successo poteva assumere proporzioni clamorose. Quest'edizione in progress alla Scala si annuncia con tutte le carte in regola, dal camaleontico tenore Gregory Kunde alle eroine femminili. Nel ruolo intensissimo della grande tragica Cassandra Anna Caterina Antonacci, «ha una padronanza della lingua francese che non si pensa mai che sia una cantante italiana». Con Daniela Barcellona (Didone) il lavoro alle prove verte sulla «nobiltà della presentazione - una maestà che non deve far mai pensare ad una statua, ma a una creatura viva, sensibile, ferita - e sull'espressione, dove colori, nuances, tempi rivelano la complessità del carattere in una scrittura vocale molto scoperta».
Berlioz sprezzava la capacità di comprensione del pubblico (avrebbe preferito ascoltatori - adepti per le sue sagre colossali), e lo metteva in difficoltà con la sua personalità bifronte. Adorava le forme ereditate dall'opera togata settecentesca di Gluck (e le grandiose prosecuzioni pre-romantiche di Spontini) inventando nel contempo un'orchestrazione radicale e moderna. Quando i Troyens videro la luce sembravano attardati e precorritori al tempo stesso. «È un'opera dove gli estremi convivono. C'è la scena di Andromaca che conduce Astianatte davanti a Priamo, che è di una staticità incredibile (due minuti col peso specifico di mezz'ora) e subito dopo l'ingresso travolgente di Enea che racconta come è morto Laocoonte. Il contrasto è la definizione base di Berlioz», sottolinea Pappano. Nel grande arco narrativo rappresentato dal cammino dei Troiani verso la fondazione di Roma, il quarto atto è «una sfida nella sfida», prosegue Pappano, «un intermezzo, sensuale, grandioso, dove Berlioz ha scritto la musica forse più bella, come il duetto d'amore e quella tempesta psicologica che è la caccia reale e il temporale (un immenso tableaux di gioia e carnalità), ma dove l'azione segna il passo». Molte edizioni hanno fatto tagli, soprattutto dei ballabili. Pappano è contrario: «Opere come Guglielmo Tell, Troyens, Don Carlo possono essere accettate e comprese solo nell'integralità, come un grande evento spettacolare ed epico».
Se i primi due atti fanno blocco in unità perfetta; i tre atti cartaginesi si espandono, rivelando «gioielli come il duetto fra le due sorelle (Didone e Anna), il sublime settimino notturno, la scena della morte».

In attesa del riscontro del pubblico di oggi, chiudiamo con un omaggio-citazione ad un critico che conosceva bene i Troyens in tempi non sospetti, Fedele d'Amico: «Quest'opera vapora i sacri stupori dell'uomo moderno e decaduto di fronte ai fantasmi di una classicità vagheggiata e rimpianta», passi dove le melodie si «adagiano sulle soavità auguste di un'orchestra che davvero si distende, secondo le parole virgiliane, per “amica silentia lunae”».

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