Se Giorgio Manganelli non ci fosse, bisognerebbe non inventarlo. Così facendo (cioè non facendo) umanamente gli si farebbe un favore, poiché, non esistendo, non potrebbe macerarsi letterariamente e umanamente soffrirne. D'altra parte, letterariamente lo si ucciderebbe, poiché proprio nel macerarsi letterariamente consisterebbe il suo vivere umanamente, umanamente godendo. Ma visto che Giorgio Manganelli fino a prova contraria c'è stato, siamo sollevati dalla responsabilità di non inventarlo. Ed è un bel sollievo. Anche perché lui in un colpo solo ha fatto entrambe le cose: si è inventato ed è vissuto macerandosi letterariamente. Questo lo capisce chiunque abbia letto anche uno solo qualsiasi dei suoi libri. E chi poi abbia letto Discorso dell'ombra e dello stemma o del lettore e dello scrittore considerati come dementi (uscito nel 1982 da Rizzoli e ora riproposto da Adelphi, pagg. 192, euro 19) lo capisce fino alle lacrime, o fino al riso. O viceversa.
Questo libro, infatti, nasce da una negazione. Inizia così: «Esisteva un tempo in cui non c'era letteratura». E termina con una negazione, cioè ribadendo d'essere il frutto delle elucubrazioni di un fool di stampo shakespeariano, di un pazzo, di un giullare, di un clown: «Non dimenticate: queste pagine vi vengono consegnate da un fool. State di buon animo. Della letteratura sulla letteratura. Nient'altro. E che altro? Stiamo invecchiando. Che monta? Vi prego, restate seduti. Il tempo è meraviglioso, ma la notte è certa. Grazie. Grazie». Sipario.
Questo libro è la storia d'amore e d'odio (odi et amo) di Manganelli per la letteratura. E su che cosa si reggono tanto l'amore quanto l'odio, se non su una negazione? Ti amo perché non ti ho. Ti odio perché non ti amo. Agli albori di questo percorso nel nulla, Manganelli coglie perfettamente l'aporia dell'universo letterario: «Tutti sapevano che ciò che non esisteva - la letteratura - era inutile, ma appunto per questo erano in preda della follia. Si può vivere senza una cosa necessaria, giacché, essendo necessaria, in qualche modo è nota; ma una cosa inutile non è nota, non è conoscibile, non è misurabile, e dunque la sua conclusione sarà la demenza non placabile». È l'inutilità la cifra della letteratura, la ragione del suo scriversi e leggersi addosso in un infinito gioco di specchi, del suo essere, come dice il saggio fool, «letteratura sulla letteratura».
La compassione con cui Manganelli ci parla dei critici letterari, dei recensori, dei redattori di epitaffi, dei professori di letteratura, degli editori, degli scrittori e dei lettori allo stato non (ancora) letterario è ilarotragica. Muove, come dicevamo, al riso e al pianto. Ma come se ne esce? Giunti sull'orlo dell'abisso, come si fa il passo in avanti? In un solo modo, con la «biotanatografia», scrivendo e leggendo della vita morta. «La letteratura è contro natura; chi ha la peggio, è la natura». Eccellente drammaturgo nonché costumista e arredatore, nel dramma che sta scrivendo e leggendo Manganelli attribuisce il ruolo di protagonisti all'«ombra» e allo «stemma» del titolo che sono i lacerti, le tracce (se fossimo in tribunale diremmo: le prove regine) del crimine perpetrato dalla letteratura, fin dal suo sorgere, nei confronti della natura. L'«ombra», cioè il buio, non soltanto è pur sempre ombra di qualcosa, per quanto defunta, ma è anche conseguenza di una luce. E lo «stemma», cioè l'araldica, è simbolo, messaggio. Insomma, l'ombra è lo spazio e lo stemma è il tempo. Come il Gatto e la Volpe, costituiscono un'associazione per delinquere. O, se preferite, come Vladimiro ed Estragone in Aspettando Godot, attendono. E i pendant dell'ombra e dello stemma sono, rispettivamente, «la Fine del mondo» e «l'avvento del Regno». Anch'essi si reggono a vicenda: il mondo deve finire affinché possa verificarsi l'avvento del Regno. Il mondo è un altro spazio e il Regno è un altro tempo.
Ohibò, non mi direte che Giorgio Manganelli è uno scrittore di fantascienza... Non di fantascienza, né di letteratura fantastica. Ma di fanta-letteratura, avendo a che fare esclusivamente con fantasmi. «Ora, se lettore e scrittore sono invenzioni, forse trucchi, delle parole, essi sono coinvolti negli stessi rischi, negli stessi strapiombi, negli stessi orrori. Figli delle tenebre e delle stelle, non ignari del silenzio e del riso dell'ombra, preda dell'altera violenza degli stemmi, questi destinatari della parola vivono una condizione che oserei chiamare disperazione felice». Non a caso le parole «tuttavia» e «infatti» meritano un capitolo a testa. Tuttavia rispetto a che? Infatti che cosa? Non si sa.
Discorso dell'ombra e dello stemma è in sostanza l'esame autoptico della letteratura tautologicamente morta di cui Salvatore Silvano Nigro compie a sua volta, nella «Postfazione», un'accuratissima autopsia. Ma non è un cadavere in decomposizione. È una mummia e ci fa paura, ovvio.
Però nulla esclude che anche le mummie possano nascere di nuovo, o per la prima volta. Una frase di Manganelli, che risplende come un sapienziale frammento presocratico, ci lascia un filo di speranza: «Ma il significato delle parole bianche, forse lo sappiamo».
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