La "Maniera" di El Greco per andare verso il futuro

Colori squillanti e contorsione del disegno nelle figure allungate sono il marchio del grande maestro cretese

La "Maniera" di El Greco per andare verso il futuro

Credevo non fosse possibile realizzare una mostra di El Greco, pittore grande che sembra di conoscere per averne viste alcune opere nei musei del mondo. E invece a Parigi, al Grand Palais, decine di dipinti ci inseguono e ci aggrediscono, mentre i corpi dei visitatori si sovrappongono in uno sforzo fisico che, diversamente da Leonardo, non impedisce il confronto vittorioso. Lo scontro con El Greco non ti lascia come prima: lui spinge verso il futuro, lasciandoti fermo in un tempo che è già passato. Nessun pittore ha una così straordinaria attualità. Nulla lo lega alla storia da cui parte, che è prima greca e poi veneziana.

Nato a Creta nel 1541, quando l'isola era sotto il dominio di Venezia, studiò e si formò nel mondo veneto-cretese, di radicale tradizione bizantina. Prima dei trent'anni si trasferisce a Venezia, dove vede le opere mature di Tiziano e il trionfo di Tintoretto e di Paolo Veronese. Entra dentro di loro, li rivitalizza, li trasforma, li proietta oltre il loro tempo. Sente soprattutto affine Jacopo Bassano di cui nessuno come El Greco ha inteso la spericolata novità, fatta di sperimentazione, di sintesi cromatica, di tensione formale. El Greco sta a Venezia fino al 1570. Il San Giovanni Battista nel deserto, i Santi Pietro e Paolo, la Santa Giustina in trono sono fra i dipinti di Bassano che El Greco sente come propri pensieri, che porta alle estreme conseguenze. Il Ritratto di Giulio Clovio, concepito intorno al 1570 e conservato a Capodimonte, ci dà la misura dei suoi rapporti con i maestri veneziani.

Nel 1570 si trasferisce a Roma, dove concepisce una serie di opere fortemente caratterizzate dallo stile appreso nel suo apprendistato veneziano. Non si sa quanto a lungo sia rimasto a Roma, anche se potrebbe essere tornato a Venezia (verso il 1575-76), prima di partire per la Spagna. A Roma, presentato da Giulio Clovio, è accolto a Palazzo Farnese, che il cardinale Alessandro aveva voluto come riferimento artistico e di idee della città. Lì conobbe l'erudito Fulvio Orsini, la cui collezione in seguito incluse sette dipinti dell'artista (tra cui Veduta del Monte Sinai). In un suo dipinto, Purificazione del Tempio, si vedono tutto il profitto e la convinzione dei suoi rapporti con i maestri italiani, nei ritratti di Michelangelo, di Tiziano, di Giulio Clovio, di Raffaello. E certamente la sua attenzione andò anche a Correggio e Parmigianino. Si conosce il suo giudizio su Michelangelo: criticò duramente il Giudizio universale realizzato nella Cappella Sistina; e fece a papa Pio V la proposta di ridipingere interamente l'affresco secondo i dettami della nuova e più rigida dottrina cattolica. Quando gli fu chiesto cosa pensasse di Michelangelo rispose che «era un brav'uomo, ma non sapeva dipingere».

Nonostante questo rapporto difficile, è indubbio che l'ambito nel quale dobbiamo porre le opere di El Greco sia quello del Manierismo, come indica la scelta di colori vividi e squillanti e la contorsione del disegno nelle sue figure allungate. Entrato in contrasto con l'ambiente artistico romano, El Greco nel 1577 si trasferisce in Spagna, a Toledo, confidando di trovare un mecenate nel sovrano Filippo II. Non fu così: Filippo dimostrò fin da subito di non apprezzare particolarmente l'arte di El Greco, assegnandogli la realizzazione di opere considerate minori. Neanche il rapporto con la Santa Inquisizione fu dei più felici. Quando realizzò Il martirio di San Maurizio (1580-1582) fu convocato dal Santo Uffizio per un interrogatorio. Lo accusavano di aver dipinto angeli lascivi, dalle forme tornite e con ali troppo grandi, emblemi di bellezza e superbia. El Greco se la cavò bene, raccontando che le ali erano così grandi per permettere agli angeli di spiccare lunghi voli verso il cielo e inoltre, essendo così larghe, meglio avrebbero coperto le pudenda di quelle creature sacre.

Anche a Paolo Veronese era toccato un processo per eresia. Eppure la sua fantasia non era sfrenata come quella di El Greco. Nella pittura di El Greco c'è una profonda dissociazione che si manifesta nel totale rovesciamento dello spazio. È uno spazio interiore, non fisico: lo si vede nell'opera sua più celebre, Sepoltura del conte di Orgaz. El Greco sembra obbedire a una allucinazione, con una continua deformazione delle immagini anche nello stesso spazio. La sua negazione della prospettiva indica la costante irrazionale delle sue origini dalla tradizione bizantina. Nella sua opera più spericolata, L'apertura del Quinto Sigillo dell'Apocalisse, la figura di San Giovanni ha dimensioni totalmente sproporzionate rispetto alla sua visione. E così, incredibilmente, essa vince ogni confine temporale per affiancarsi alle opere di Picasso in particolare a Les demoiselles d'Avignon. Non è una coincidenza, perché il rapporto è documentato da una visita che Picasso fece a Igacio Zuloaga nel suo atelier a Parigi, dove poté vedere l'opera di El Greco che era di proprietà dell'amico pittore dal 1897. Dopo Picasso sono evidenti i richiami a El Greco di pittori espressionisti come Franc Marc. Perfino Jackson Pollock, nella elaborazione del suo espressionismo astratto, fu influenzato da El Greco. Nel 1943 Pollock fece sessanta disegni ispirati El Greco.

Ma la visita della mostra parigina indica una così sfrenata libertà da allontanare El Greco da ogni riferimento al suo tempo, facendolo sentire contemporaneo, oltre che dei grandi artisti citati, di Francis Bacon che sembra esser il solo artista che ha inteso la peculiarità dello spazio interiore di El Greco. Le larghe campiture di colori sembrano del tutto scollegate dalla rappresentazione di un'immagine reale che non passi attraverso il filtro di una visione onirica. Tutti i suoi ritratti prescindono dalla verosimiglianza, così come le sue anatomie sono continue deformazioni delle forme dei corpi. La verosimiglianza gli sembra una forma di tradimento: ciò che gli importa è cogliere una dimensione interiore, che nasce dal turbamento e dall'alterazione. E ciò che stupisce è che la sua opera non indica precedenze, anticipazioni, ma sempre contemporaneità.

Chi ha in mente la serie dei ritratti di papi e cardinali di Bacon, derivati dall'Innocenzo X di Velázquez, non potrà non sentire il Ritratto di cardinale, probabilmente Don Fernando Niño de Guevara, grande inquisitore, nel suo abito di seta frusciante, come una presenza viva, inquietante e tormentata, che ci trasmette un turbamento irrimediabile.

Il Cardinale è davanti a noi, ci interroga, e non è disponibile a comprenderci. È prigioniero di se stesso e del suo ruolo. Ma non è in un altro tempo, è nel nostro.

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