Nel tardo pomeriggio del 30 ottobre 1922 verso le 19,30 Mussolini salì le scale del Quirinale per sottoporre a Vittorio Emanuele III il suo primo ministero. Era un governo di coalizione non molto diverso da quelli che lo avevano preceduto. Ne facevano parte tre fascisti, un nazionalista, due popolari, due democratici, un demo sociale, un liberale, un indipendente e due militari. Anche la prassi adottata per la soluzione della crisi non era stata stravolta da un punto di vista formale. Eppure qualche cosa era cambiato. Il nuovo governo, infatti, era nato sotto la pressione, anche psicologica, dello squadrismo e dell'illegalismo. Inoltre, al suo interno, il peso reale del fascismo, più per la qualità che per il numero dei dicasteri occupati, era preponderante. Il baricentro del sistema politico si spostava verso destra, dando inizio a una pagina nuova della storia d'Italia.
Due giorni prima della formazione del primo governo Mussolini, il 28 ottobre, c'era stata quella «marcia su Roma» che, in seguito, il fascismo avrebbe elevato a mito fondante della cosiddetta «rivoluzione fascista». In realtà, quell'avvenimento fu il punto di arrivo di una crisi iniziata già all'indomani della Prima guerra mondiale e culminata con le agitazioni sociali e le occupazioni di fabbriche e campagne che avevano fatto balenare lo spauracchio di una sovietizzazione. Erano nati i fasci di combattimento, poi si era sviluppato lo squadrismo, infine c'era stata la trasformazione del fascismo da rurale a urbano e da movimento a partito. Si erano susseguite le crisi di governo e si era registrato un attivismo delle squadre fasciste a Ferrara e a Bologna che, in seguito, avrebbe fatto parlare di «prove generali» della marcia su Roma. Le cose stavano altrimenti anche se Italo Balbo, all'indomani dei fatti di Bologna, annotò nel diario: «si marcia verso l'epigono rivoluzionario del fascismo che non può essere altro che la conquista del potere». Certo, l'obiettivo di Mussolini era la conquista del potere, ma la sua vera strategia, più che nel progetto insurrezionale, stava nel tessere una «tela di ragno» politico-parlamentare. Poi c'erano state le dimissioni del primo governo Facta e la nascita travagliata, all'inizio di agosto del 1922, del secondo governo guidato dall'anziano statista liberale. Mario Missiroli l'aveva commentata lapidariamente: «contro il fascismo si può fare un ministero, non si può fare un governo».
Il giorno stesso della nascita del nuovo governo aveva avuto inizio uno sciopero generale proclamato dall'Alleanza del Lavoro in chiave antifascista. Ed era stato un fiasco. Lo sciopero si era svolto di malavoglia e le camicie nere dei fascisti, insieme alle camicie azzurre dei nazionalisti, avevano fatto funzionare i servizi pubblici e consentito la ripresa del lavoro in stabilimenti industriali, avevano occupato comuni e cacciato amministrazioni socialiste. Lo «sciopero legalitario», rivelatosi una Caporetto per i socialisti, fu un successo, soprattutto politico, per i fascisti. Non a caso Benito Mussolini, anni dopo, rievocando quegli avvenimenti avrebbe scritto: «lo sciopero generale doveva essere il tentativo supremo per sbarrare il cammino al fascismo L'agosto del 1922 è un punto culminante nella storia contemporanea d'Italia è con l'agosto del 1922 che comincia il periodo insurrezionale del fascismo che si conclude con la marcia su Roma». In un certo senso, come ha sottolineato anche parte della storiografia, lo sciopero generale rappresentò una occasione per mobilitare le forze del fascismo, ma presentare questo evento come una specie di prova generale della marcia su Roma è certamente eccessivo.
La verità è che Mussolini alla guida di un partito, divenuto ormai fondamentale per gli equilibri politici, nel quale convivevano un'ala più legalitaria raccolta attorno a Giacomo Acerbo e a Dino Grandi e un'ala insurrezionale capeggiata da Italo Balbo e Roberto Farinacci coltivava il proposito di conquistare il potere per via parlamentare percorrendo la strada accidentata delle trattative con tutti i possibili partner di governo. Molti mesi furono da lui occupati a tessere una fitta tela di ragno con i politici più in vista della vecchia Italia liberale, da Orlando a Nitti, da Salandra a Giolitti fino a Facta, mentre, sullo sfondo, pesavano come strumento di pressione le iniziative del fascismo estremistico. Nella sua biografia mussoliniana Renzo De Felice ha ricostruito con grande finezza questo aspetto «diplomatico» della conquista del potere facendo vedere come la vera e propria «marcia su Roma» abbia finito per svolgersi su un tessuto la cui trama era stata pazientemente composta con grande abilità da Mussolini.
Quando si giunse al 24 ottobre 1922, alla grande adunata fascista al San Carlo di Napoli, tutto l'ordito era stato tessuto sul piano diplomatico. Il giorno precedente, anzi, Mussolini, di passaggio a Roma, si era incontrato con Salandra cui aveva esposto la richiesta di cinque ministeri per un eventuale ingresso dei fascisti al governo. Per il capo del fascismo l'approccio con Salandra era importante sia perché questi avrebbe potuto determinare una crisi immediata di governo attraverso le dimissioni del suo uomo di fiducia nella compagine ministeriale sia perché egli avrebbe, comunque, rappresentato un ostacolo per una eventuale e paventata ricandidatura di Giolitti. Ciò conferma che la conquista del potere da parte di Mussolini venne programmata minuziosamente sul piano politico e che la «marcia su Roma», il suo lato militare, ne fu, in realtà, un aspetto accessorio se pur importante, forse anche fondamentale, sul terreno psicologico ed emotivo. In occasione dell'apertura dell'adunata napoletana, cui presenziarono fra gli altri il prefetto e Benedetto Croce, a Mussolini venne consegnata una lettera che Vilfredo Pareto aveva mandato a Giovanni Preziosi. Il grande sociologo ed economista, il solitario di Cèligny, ricordava come i socialisti a suo tempo si fossero lasciati sfuggire l'occasione, mai più ripresentatasi, di prendere il potere e concludeva: «Dite a Mussolini: o ora o mai più». L'esortazione era superflua. Il giorno successivo, Michele Bianchi, rivolto ai congressisti, pronunciò una frase rimasta celebre: «Insomma, fascisti, a Napoli piove. Che ci state a fare?». Era l'annuncio della mobilitazione. Mentre il convegno napoletano proseguiva Mussolini si spostò a Milano prendendo contatti con esponenti del mondo industriale, mentre iniziava un carosello di frenetici colloqui tra esponenti politici della vecchia classe dirigente liberale, fascisti, nazionalisti: Giolitti, Orlando, De Vecchi, Salandra, Federzoni, Facta. La situazione precipitò tra il 27 e il 28 ottobre: la «marcia su Roma» divenne una realtà con le colonne di squadristi dirette verso la capitale, la proclamazione dello stato d'assedio revocato subito da Vittorio Emanuele III, le dimissioni del governo Facta, l'incarico a Salandra e la sua successiva rinuncia e, infine, la mattina del 29 ottobre, il telegramma del Re a Mussolini con l'invito a formare il nuovo governo.
Vittorio Emanuele III non aveva voluto far intervenire l'esercito per fermare le colonne dei fascisti dirette verso la capitale. Era stata una scelta difficile ma ponderata. Il Re aveva voluto evitare il rischio, se non di una guerra civile, dello spargimento di sangue fraterno, tanto più che era consapevole delle simpatie di larghi settori delle forze armate nei confronti del fascismo. Del resto, i generali che egli aveva interpellato, da Diaz a Pecori Giraldi fino al grande ammiraglio Thaon de Revel, si erano tutti espressi, più o meno, allo stesso modo: «Maestà, l'esercito farà il suo dovere, però sarebbe bene non metterlo alla prova». E, poi, c'era stata una svolta rassicurante per il futuro delle istituzioni. Grazie alla intermediazione di uno dei capi del movimento nazionalista, Luigi Federzoni, i fascisti avevano assicurato che non sarebbe stato toccato il quadro istituzionale esistente. A quel punto le «camicie azzurre», che si erano mobilitate contro i fascisti in difesa «della Patria e del Re», avevano cambiato fronte e si erano schierati a fianco delle «camicie nere» e, insieme, avevano sfilato davanti al Quirinale.
Mussolini era così giunto al potere con una «rivoluzione» che, in realtà, era stata poco più di una grande manifestazione di piazza e che era stata, poi, riassorbita nei canali della consueta prassi istituzionale. Non a caso, il futuro Duce aveva potuto costituire un governo di coalizione, che, in qualche misura, si riallacciava alla tradizione parlamentare dell'Italia liberale. Solo più tardi, dopo il delitto Matteotti, ci sarebbe stata la svolta che avrebbe portato all'instaurazione di un regime autoritario.
Poco alla volta la «marcia su Roma» acquistò un valore simbolico, fu elevata a mito fondante di una vera e propria «rivoluzione», politica e culturale, volta a creare, pur senza rendersi conto della dimensione utopistica del proposito, un «mondo nuovo» e un «uomo nuovo».
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