Marco van Basten, quel "Cigno" che sa di essere un anatroccolo

In «Fragile» l'ex fuoriclasse olandese fa i conti con se stesso. A gamba tesa

Marco van Basten, quel "Cigno" che sa di essere un anatroccolo

Il senso di questo libro è condensabile in una frase. Che però non è stata scritta per questo libro, appena uscito. Infatti risale al più tardi al 1985, quando l'autore, a 21 anni, lasciò la casa dei genitori e andò a vivere con la bella e santa donna che ancora gli sta accanto. Sulla scrivania della sua cameretta, lui, Marcel van Basten detto Marco, con un coltellino vergò in maiuscolo queste parole: «IO SONO IL MIGLIORE (DOPO DI ME)». Le riporta qui, a pagina 299, quasi nei minuti di recupero di Fragile, che è un'autobiografia, ma soprattutto la partita giocata da Marco contro se stesso, come fanno i pugili quando si allenano davanti allo specchio, cioè tirando pugni virtuali, compresi i colpi bassi, alla propria figura. In quella frase, certo, leggiamo l'arroganza del genio, ma è un'arroganza interiore, che parla, appunto, allo specchio, e pretende la perfezione: o la perfezione, oppure il nulla. E poi c'è la parentesi, «(DOPO DI ME)», come a dire: no, non ci riesco, non posso riuscirci, a essere il migliore, perché l'altro me, quello che mi comanda e mi sta guardando dallo specchio, non sarà mai soddisfatto.

Con quella frase Marco, inconsapevolmente, è stato buon profeta. È stato realmente quanto di più vicino alla perfezione, sui campi di tutto il mondo, oppure il nulla, fuori. Colpa della caviglia destra, maltrattata dai chirurghi prima, durante e dopo le pedate degli avversari. D'altra parte, se Omero era cieco e Beethoven era sordo, a posteriori possiamo persino accettare che Marco fosse tecnicamente zoppo. Ebbene sì, amici e colleghi, anche prima di arrivare al Milan. Noi, lassù, sui gradoni di San Siro, non lo sapevamo, e se qualcuno ce lo avesse detto avremmo chiamato la Neurodeliri. Guardavamo Marco scrivere e suonare con il pallone fra i piedi, ascoltavamo rapiti le storie che ci raccontava, per 90 minuti lo stadio non era uno stadio, ma davvero, come da luogo comune, la Scala del calcio, o la Pinacoteca di Brera, o la stanzetta di Tolstoj a Jàsnaja Poljàna. Il bello di questo libro, Fragile come da titolo (Mondadori, pagg. 345, euro 20) eppure durissimo, indistruttibile come l'acciaio e come la voglia che aveva Marco di andare sempre avanti, di fargliela vedere, a quell'altro suo «io» che lo sorvegliava dallo specchio, è che il gioco del pallone, sotto i polpastrelli di Marco, torna a essere, a dispetto dei soloni (e dei loro reggicoda) passati, presenti e futuri, un gioco. Come la letteratura, la musica, la pittura. Un bene voluttuario, da gustare con voluttà.

Marco non si autocelebra, accenna appena ai suoi successi, di squadra e personali, agli Scudetti, alle Coppe, ai Palloni d'Oro che lo collocano nell'Olimpo. Al contrario, indulge nel sottolineare i suoi dubbi, le sue ansie, le sue (veniali) meschinità. Come quando, il 24 maggio dell'89 a Barcellona, nella finale di Coppa dei Campioni contro la Steaua, in un attimo decise che sì, era proprio il caso, dopo il gol del 4 a 0, di correre vicino a quel cartellone pubblicitario, visto che l'inserzionista gli aveva promesso un compenso di 500 fiorini... Descrive per filo e per segno tutte le cose brutte che ha fatto (niente paura, nulla di propriamente criminale) e che gli sono capitate. Il suo coetaneo Jopie che lui vede affogare, a sette anni, sotto il ghiaccio di un fossato, il giorno in cui volevano andare a piedi ad Amsterdam; la mamma ricoverata in ospedale e i tifosi della FC Utrecht che si mettono a cantare «Marco, Marco... Tua madre è matta»; il padre che gli parla soltanto di calcio, come un allenatore, senza comunicargli mai nulla, come dovrebbero fare i papà; il dolore all'anca, alla caviglia sinistra, a quella destra; l'impossibilità di convivere con l'apparato di Ilizarov (se non lo conoscete - e vi auguro di non conoscerlo mai - andate a vedere su internet le foto dell'infernale aggeggio, ma prima fate un respiro profondo); i guai prima con il fisco olandese, poi con quello italiano, con milioni di fiorini prima e di euro poi che volano via con il vento della sua inettitudine nel gestirli e nel farli gestire. La pagina 326 si chiude così: «Se non sai cosa vuol dire essere infelice, non sai nemmeno cosa vuol dire essere felice».

Non sono qui a raccontarvi che Marco van Basten oggi è una specie di Giacomo Leopardi o di Søren Kierkegaard, e che, a 55 anni suonati, nel suo 25 d.C. (dopo Calcio), si sia messo a fare il filosofo nel ruolo di esistenzialista. No, ma vi invito a leggere, prima di tutto il resto, le ultime tre righe del suo libro: «Ma so anche che rifarei tutto allo stesso modo. Con il mio carattere, per la persona che sono, ci sono buone probabilità che commetterei di nuovo gli stessi errori». Ma sappiate che non le ha scritte un uomo innamorato delle proprie sconfitte, che si crogiola nel maledettismo, sempre di moda, e che gode nel piangersi addosso. Perché Marco è esattamente l'opposto.

Per esempio la sua Liesbeth, moglie e madre dei suoi tre figli, con la quale ha avuto soltanto una crisi passeggera, tanto tempo fa (ovviamente per colpa sua, di Marco), non la cambierebbe con nessuna al mondo, perché lei in casa porta i pantaloni, non i pantaloncini (ed ecco un filo rosso che unisce Marco al suo unico vero erede, Zlatan Ibrahimovic, anch'egli felice consorte di una donna con quattro palle, Helena, e anch'egli autore di un'autobiografia scritta a gamba tesa, Io, Ibra, nel 2011). Per esempio di amici ne ha pochissimi, e con quello che ha perso quattro anni fa, Johan Cruijff, non sono mancate polemiche e baruffe. Per esempio non sopporta quelli che ti fanno una faccia davanti e una dietro, la famosa faccia come il culo. Per esempio, passato dall'altra parte dello spogliatoio e intrapresa la carriera da allenatore, confessa che la responsabilità di gestire il gruppo è una prova insuperabile da chi ha sempre camminato avendo sotto i piedi fatati il cuscinetto d'aria del talento assoluto, immateriale e dunque non trasferibile ad altri.

Per esempio esulta 24 ore su 24 pensando al cadavere della maledetta caviglia destra, finalmente tumulata, bloccata, mummificata e non più dolorante, e che non gli impedisce di passeggiare, giocare a golf, pedalare sulla cyclette. Grazie per tutto, Marco, anche per la tua ferrea fragilità.

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