Cultura e Spettacoli

«La mia Felicia Impastato, una madre contro la mafia»

L'attrice interpreta la mamma di Peppino, ucciso dalle cosche, nella fiction in onda su Raiuno «Una donna normale, capace di cose straordinarie»

«La mia Felicia Impastato, una madre contro la mafia»

Solo un dito puntato. Ed una sola, semplice frase: «Tu hai ucciso mio figlio». Sembra fatto di niente, quel gesto; eppure fu compiuto quando solo puntare un dito poteva costare la vita. Come di nulla sembra fatto lo stesso gesto, replicato davanti all'obbiettivo, da Lunetta Savino. Ma proprio nella semplicità consiste il fascino dell'interpretazione della protagonista di Felicia Impastato: il film tv che, su Raiuno martedì 10 (dopo la presentazione di ieri sera davanti ai Presidenti di Camera e Senato), farà conoscere a molti il coraggio di un'eroina della lotta alla mafia. La madre di Peppino Impastato; lui stesso rivelato al grande pubblico solo sedici anni fa, dal capolavoro di Marco Tullio Giordana I cento passi.

Signora Savino: prima d'interpretarla per la tv, conosceva la storia di Felicia Impastato?

«No. Anch'io come tanti ricordavo solo quella di suo figlio Peppino, il coraggioso cronista di Radio Aut fatto uccidere dal boss Tano Badalamenti il 9 maggio 1978, lo stesso giorno di Aldo Moro. E anche per questo per lunghi vent'anni ignoto ai più. Prima che proprio il coraggio di Felicia cominciasse a farlo conoscere».

Quale fu questo coraggio?

«Quello di fare ciò che nessuna donna, e soprattutto nessuna donna di connivente alla mafia, fino ad allora aveva osato fare, in Sicilia. Parlare. Denunciare gli assassini del figlio. Inseguire lo Stato e costringerlo ad arrestare il mandante, Tano Badalamenti; a processarlo, a condannarlo. Impossibile capire quanta solitudine ci fosse, per le persone oneste, in una certa Sicilia del 1978. Felicia ribalta lo stereotipo della donna del sud. Rompe i codici mafiosi, e non ha paura di affrontare il mondo a mani nude.

E oggi cosa prova per questa donna?

«L'ho amata fin dal primo momento. In fondo era solo una madre qualunque. Che però ha compiuto una scelta. Una scelta che ciascuno di noi, persone qualunque, potrebbe essere chiamato a compiere. C'è in lei rabbia e fierezza. Rabbia per non aver fermato in tempo il figlio. E fierezza di non averlo fatto. E poi c'è coraggio. Difficile dire se sia stato lui ad ispirarlo a lei o non piuttosto lei ad ereditarlo da lui. Entrambe le cose, credo».

Chi ha già visto il film ha molto lodato la sua recitazione antiretorica.

«Col regista Gianfranco Albano (col quale dieci anni fa interpretai un'altra madre coraggio in Il figlio della luna) siamo stati subito d'accordo: evitare retorica e piagnistei melodrammatici. L'asciuttezza era fondamentale per raccontare una donna essa stessa scabra, riservata. Ci ho messo anche qualche sfumatura ironica, perché un dramma con alcune leggerezze rende tutto più credibile, più umano. E quando tu restituisci tutto questo con onestà e semplicità, il pubblico lo avverte».

E che pensano del risultato il figlio e la nuora di Felicia, Giovanni e Felicetta?

«Ah: io li ho avvertiti subito! Ho passato ore a vedermi e rivedere le interviste filmate della vostra parente; ne ho assorbito la compostezza, la modestia, il linguaggio semplice, da quinta elementare, intriso però di dignità e intelligenza. Ne conosco a memoria perfino i tic. Poi però non mi sono messa ad imitarla: ho fatto la mia Felicia. Per tutta risposta, quando la nuora m'ha visto vestita e truccata, e prima ancora che aprissi bocca, s'è commossa».

Cosa smuove nel profondo delle spettatrici il ritratto di donne come queste, secondo lei?

«Una forma di desiderata, ma spesso incompiuta, immedesimazione. Per donne normali è facile desiderare d'assomigliare ad una donna normale, che nella banalità ha fatto qualcosa di straordinario. Il pubblico generalista, specie quello di Raiuno, è femminile, si sa. Io penso che anche per loro il nostro film abbia raccolto il testimone dalle mani di Felicia. Continui cioè a raccontare, a testimoniare, a far sapere che ciascuno di noi può avere il coraggio più difficile.

Il coraggio di essere normale».

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