È lui il gran divo di Lohengrin di Richard Wagner, l'opera che il 7 dicembre apre la stagione della Scala di Milano. Si chiama Jonas Kaufmann, il tenorissimo di ultima generazione: 43 anni, di Monaco, intelligente, colto, bello, sportivo, tutto teatro-casa-moglie-figli. Pare una favola. L'artista viene a Milano forte di altre due prime scaligere. Lo si vide quando ancora non era Kaufmann, per carità in una particina, nel Fidelio del 7 dicembre 1999, ma passò inosservato. A consacrarlo a Milano era il suo Don José nella Carmen del Sant'Ambrogio 2009. Ora vestirà i panni del figlio di Parsifal, il re del Santo Graal. Sarà il cavaliere senza macchia che scende sulla terra in soccorso di una donna in pericolo, Elsa. Sconfigge cattivoni in duello, si conquista la venerazione del popolo e l'amore di Elsa. Reo di aver confidato la propria identità, rompe il voto della segretezza, e così facendo torna laddove proviene.
Leggenda (e libretto) vuole che il bel Lohengrin raggiunga i comuni mortali su una navicella trainata da un cigno. Ma Claus Guth, il regista dello spettacolo, di cigni non ne ha proprio voluto sapere.
La spiazza questa scelta lei che è stato più volte Lohengrin?
«Per niente. Oggi il gusto è cambiato, è difficile accettare l'idea di un cigno di plastica che arriva in palcoscenico. Mi piace l'idea di Guth di tradurre il cigno con uno dei simboli sempre presenti in questa produzione».
Wagner non è il più «spendibile» dei compositori. Se poi si creano trame di simboli, povero pubblico.
«Perché un cigno che arriva su una barca aiuta a capire la vicenda? Non credo. Per fedeltà al libretto, allora dovremmo riprodurre il fiume e tutta una serie di cose impossibili già all'epoca di Wagner. Ridurre è anche una necessità».
Questa produzione ci sbalordirà?
«Non è tradizionale, d'accordo, però non provoca. È un'ottima via di mezzo fra modernità e tradizione».
Cosa che lei apprezza...
«Sì, detesto le regie che introducono cose che non c'entrano solo per creare novità. Questo Lohengrin è un antieroe che compare in una Germania all'epoca di Wagner. Più non posso dirvi, così mi hanno chiesto. Mi hanno spiegato che per la Prima si vuole creare un po' di mistero».
Che ne dice, lei pragmatico tedesco, delle nevrosi che si accendono attorno a questo evento?
«Sento un po' di pressione, ovvio. So che è uno spettacolo che attrae l'attenzione di tutto il mondo. Non conosco altre città che per l'inaugurazione della stagione d'opera chiudono il centro. Fantastico».
Cosa rappresenta la Scala del Duemila? L'attualità è all'altezza della leggenda?
«Ha una tradizione imbattibile, basta vedere il suo albo d'oro di prime mondiali. Un teatro non può mantenere sempre lo stesso livello, e io non conosco nei dettagli la situazione della Scala per potermi esprimere. So solo che quand'ero uno studente avevo un sogno: cantare alla Scala».
Certo che, dopo Don José, torna di nuovo nei panni di un uomo, pur mitico, ma fragile.
«Lohengrin, è vero, è un antieroe, molto umano, un po' vanitoso».
Alla fine capisce che è tutta colpa sua se perde Elsa. Svuotando il sacco come ha fatto, ha creato i presupposti perché la sposa indaghi sulla sua identità. E così se ne dovrà andare. E lei come ci rimane?
«Male. Sei in palcoscenico da quasi cinque ore, direi che è bene che l'opera finisca, però avverti la frustrazione di questo personaggio, alla fine un po' depresso».
Lei è stato Lohengrin nella tana del lupo, a Bayreuth, il teatro di Wagner. Debuttare qui alla Scala che effetto le fa?
«Lì ogni frase, ogni gesto vengono comparati con quelli di altri colleghi del passato. Non si dice, ma lo si fa: lo respiri nell'aria. Non è quindi facile essere se stessi su quel palcoscenico. Fare Lohengrin qui è diverso, perché la Scala ha una storia unica, fuor di dubbio, però è una storia che non ha connessioni speciali con Wagner».
Mentre le avrebbe con Verdi. Eppure è con Wagner che si inaugura l'anno operistico 2013, doppio bicentenario Verdi&Wagner. La cosa ha sollevato un polverone.
«Lo so, e io non mi butto certo in questa battaglia. Dico solo che ora siamo nel 2012.
E che ci dice del direttore, Daniel Barenboim?
«Lui dirige tutto. Ma è forte anzitutto in Wagner».
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