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Il mio Massimo Fini e l'arte di vincere stando con i perdenti

Claudio Martelli racconta gli anni della giovinezza trascorsi con lo scrittore

Il mio Massimo Fini e l'arte di vincere stando con i perdenti

Massimo Fini entrò in classe - la Terza C del Liceo Carducci - una mattina di novembre, ad anno scolastico già iniziato. Stropicciato e serio - come i liceali di quel tempo, ribelli in giacca e cravatta - lo riconobbi mentre intimidito esitava sull'uscio, cercando con lo sguardo un posto dove sedersi. Non so se l'avete mai provata, ma poche esperienze come quella di essere aggregato, tu solo e in ritardo, a una comunità o classe affiatata, trasmette, con l'imbarazzo di sentirsi esaminati, un senso d'indifesa estraneità. «Trovati un posto, sbrigati - intimò il prof d'italiano al nuovo alunno - stiamo facendo lezione!». Poiché conoscevo Massimo e il prof, mi alzai, spinsi da parte i libri e le mie cose e gli indicai la sedia a fianco. Mi raggiunse sospirando: «Almeno uno lo conosco».

A dodici, tredici anni, all'oratorio, avevamo giocato insieme a calcio quelle partite che cominciavano dopo pranzo in trenta e più giocatori da dividere in due squadre che via via si assottigliavano fino a che i superstiti non li reclamava il prete o i genitori spazientiti. Ma alcuni non smettevano, anzi, fedeli a oltranza, ricominciavano coi passaggi e, se non si sgonfiava il pallone, continuavano al buio, tirando in una porta sola anche senza portiere. Come gli altri ragazzini con cui arrivava e se ne andava, Massimo abitava lì vicino - la «casa dei giornalisti» a un passo da piazza della Repubblica, a Milano. Facevano gruppo passandosi di mano e commentando La Gazzetta dello Sport, e giornali con le firme o le vignette dei loro padri mentre, con i ragazzi di altre classi sociali, ostentavano un'insopportabile arietta di superiorità. Non ho mai avuto voglia di frequentarli, nessuno, salvo Massimo, a partire dal giorno in cui lo vidi prendere le difese di un piccoletto pestato dal più grosso del suo gruppo.

Andammo a casa sua e la cosa che più mi colpì e gli invidiai fu che, figlio unico e orfano di padre, quando la mamma era assente aveva tutta la casa a disposizione. Su un tavolo teneva fissata una tovaglia incerata sopra la quale, sparsi o impilati, c'erano sciami di «tollini» - tappi di bottiglia - con al fondo incollati minuscoli ritratti dei giocatori di tutte le squadre. Una play station preistorica, artigianale anticipazione di quelle digitali su cui oggi con i loro amici giocano i nostri nipoti. Leggendo la sua autobiografia, Una vita - uscita nel 2015 e ripubblicata all'interno del volume Confesso che ho vissuto (Marsilio) - mi sono reso conto che del mio compagno di banco, dell'amico con cui ho fraternizzato e duellato, correndo ciascuno la sua gara, ciclicamente incrociando quella dell'altro, insomma, della sua vita, io, in realtà, ho sempre saputo pochissimo.

Il libro mantiene la promessa: dentro c'è vita, molta vita, anzi, più vite. Più vite perché l'hanno ingaggiato molte esperienze che poi nei suoi libri Massimo ha riaperto e sezionato, come su un tavolo anatomico, esibendo al suo pubblico tutta questa umana, troppo umana, mercanzia.

Quando parla di sé e di chi o di cosa nel mondo gli è stato famigliare, quando racconta di suo figlio e di sua madre, di altre donne e uomini, di quale umanità l'abbia fatto amare e odiare e da cui si sia sentito riconosciuto o abbandonato, è allora che Fini ci coinvolge: ferite che non si rimarginano, canzoni che non si dimenticano. Come quando parla della nostra Milano degli anni Sessanta - beninteso, i primi, non i «formidabili» di Mario Capanna.

Anni ancora severi ma già più luminosi di una Milano tutta da camminare, da esplorare e non ancora da bere. Come quando parla della casa di famiglia, del babbo importante e della madre russa, severa di molti doveri, di molti insegnamenti e di poca affettività. Della casa in cui ha sempre abitato e che continua ad abitare, Massimo illumina un divano rosso che per molti, intervistati o semplicemente incontrati, fu lettino di psicanalista, confessionale senza liturgia. La sua tecnica era di rivelarsi, lui, più dell'ospite di turno, debole e colpevole di delitti del cuore, dei sensi, dell'indole. Naturalmente le sue erano colpe e debolezze oneste, perciò irresistibili e, dunque, perdonate in partenza. Diverso il trattamento riservato alle colpe degli altri che, dopo un po' di tempo dall'intima confessione, le ritrovavi su un giornale spiattellate senza tanti riguardi, da cui liti, rotture e persino denunce.

Se nel giornalismo Massimo si è occupato di personaggi e storie varie in modo quasi sempre polemico, nei tanti saggi che ha scritto ha spostato la polemica sulla modernità stessa, sempre più spesso pescando nel pozzo del passato gli argomenti e le frustate contro la miseria dei moderni, i loro pregiudizi e le loro contraddizioni tanto arroganti quanto insensate. Così è diventato un negatore dei lumi e del progresso, uno scrittore reazionario, oscurantista, fratello maggiore del giornalista assediato e schifato dai contemporanei.

Massimo sa indirizzare benissimo la sua penna dove vuole e, come infierisce su di sé, così indulge a compiacersi della propria onestà, del disinteresse, dell'indipendenza dal potere. Rivendicazione legittima da parte di chi ha pagato con il record di licenziamenti il prezzo della coerenza. In un Paese di trasformisti, non è poco. La coerenza però è una virtù che parla di noi stessi, ma non dice nulla della realtà. E poi si può essere coerenti anche nell'ignavia, nel vizio e nei delitti e non per questo si diventa migliori.

La sua scrittura fluida, naturale, in presa diretta, intreccia prosa on the road e prosa colta all'ombra di Rimbaud e di Céline, così, mentre aspira all'onestà - la più borghese delle virtù - non rinnega il vizio di esistere, di voler esistere senza limiti, senza nulla concedere né alla fede né alla ragione. Tanto meno alla politica che per lui è solo sinonimo di potere. Dell'Occidente ama l'Europa ma detesta l'America, al cui posto vorrebbe la Russia tanto più grande e, in tutti i sensi, tanto più lontana.

Contro tutti i potenti e i conformisti, Fini dà sempre ragione ai vinti e ai sovversivi: a Catilina contro Cicerone, a Nietzsche contro Hegel, al Mullah Omar contro Bush, a Bossi contro Berlusconi, a Beppe Grillo contro la scienza e soprattutto a se stesso contro gli altri.

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