Cultura e Spettacoli

"Il mio Polesine sfigurato dall'acqua"

A 70 anni dall'alluvione tornano le splendide "Cronache" di Gian Antonio Cibotto

"Il mio Polesine sfigurato dall'acqua"

Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo un brano delle Cronache dell'alluvione. Polesine 1951 di Gian Antonio Cibotto, oggi ripubblicate da La Nave di Teseo (pagg. 144, euro 16) con testi di Cesare De Michelis, Gian Antonio Stella, Vittorio Sgarbi e Elisabetta Sgarbi.

Continuiamo a remare. Dopo due ore e mezza, non si vede ancora traccia dell'abitato. Eppure cinque chilometri dovremmo averli superati. Comincia a soffiare un leggero vento, che forma delle onde e rallenta ancor più la nostra andatura. Marangoni mi chiede quanta strada dobbiamo ancora fare e gli rispondo che ormai si dovrebbe vedere il campanile. Ma la verità è che ho perso completamente il senso d'orientamento, e non ci capisco più niente. Fingo di sapere, di sentirmi sicuro, ma è il contrario, e lo faccio solo per non impressionare gli altri. Finalmente qualcuno passa voce di aver intravisto il lume d'una casa. Basta quell'indicazione a rianimare tutti. Adesso i colpi di remo sembrano vere e proprie frustate, e le barche vengono scaraventate in avanti, come spinte da motori. Passiamo una imbarcazione dietro l'altra attraverso siepi, vigneti, cespugli di rovi. Aggirato un enorme pagliaio che sembra fare la guardia al cortile, la luce ci palpita davanti con nitidezza. Corrono da un'imbarcazione all'altra risate, motti di spirito, prese in giro. Arrivati sotto la casa lanciamo dei richiami. Prima Marangoni da solo, poi tutti insieme. Silenzio assoluto. Dev'essere una lampada a olio rimasta accesa, perché proietta sui vetri della finestra arabeschi tremolanti di luci e di ombre, mentre in casa non c'è più nessuno. Unico segno di vita, gli animali rinchiusi nelle stanze superiori, che adesso, udendo le nostre voci, cominciano a lamentarsi. Non ci resta che proseguire, ma i remi sembrano diventati di piombo. Tonfano nell'acqua e pare facciano una fatica maledetta a uscirne, come se trattenuti da una forza contraria. Per fortuna Spumoldi, il nostromo, che da vecchio lupo di mare deve aver intuito la situazione, si porta avanti con la sua barca a fare l'andatura. Si naviga così nella più assoluta oscurità, senza più sapere né dove si è, né dove si va. Fra non molto dovrebbe far giorno, e allora troveremo certamente una via d'uscita. Intanto siccome i marinai sono stanchi, Marangoni ordina un quarto d'ora di sosta. Qualcuno fuma, altri parlano sottovoce. Vengono spente le torce, che cominciano fra l'altro a scarseggiare. Quando viene dato l'ordine di ripresa, Spadoni, un tenente di vascello, grida che dalla sua barca s'intravede un campanile. È invece la ciminiera della Fornace Fonti. Sono però talmente smarrito, che non ricordo più da che parte si trovi il paese. E pensare che in bicicletta ci sarò venuto mille volte... Scelgo a caso la destra, e poco dopo entriamo in Grignano.

La popolazione è quasi tutta riunita dentro la chiesa, che con le porte spalancate, i ceri tremolanti nel fondo e l'atmosfera di mestizia generale, fa pensare a una enorme tomba di famiglia il giorno dei morti. Chi dirige, organizza, decide le partenze, è il parroco, aiutato da qualche volenteroso. Gli altri ubbidiscono passivamente. Restano lì otto barche, mentre con altre quattro ci dirigiamo verso la piazza, dove un centinaio di abitanti sono isolati al terzo piano di Palazzo Rossi. Si ferma Spumoldi con tre barche. Io, Marangoni e quattro marinai, proseguiamo invece verso il fondo del paese, per assicurarci che non ci sia qualche altro da portar via. Infatti da un viottolo sulla destra invocano aiuto. È una donna che ci supplica di andare a prendere il fratello rifugiato nell'ultima casa della via. Battiamo col remo al balcone indicatoci, e s'affaccia un uomo ancora giovane, che protesta di star bene e di non volere affatto muoversi. Mentre voltiamo per tornare indietro, ci afferra un giro rabbioso di corrente, e andiamo a sbattere contro una siepe di sambuco. La lotta per disincagliarci dura circa un'ora, ma senza esito, perché appena riusciamo a staccarci con un colpo di remo dalla siepe, la corrente ci ricaccia indietro. Alla fine rompiamo una pala. Cominciamo a invocare aiuto, e Marangoni spara in aria alcuni colpi di pistola. Ma gli altri devono essere già ripartiti, perché non risponde nessuno. Rimaniamo così impigliati e pieni di rabbia fino all'alba, quando un nuovo giro di corrente ci fa passare dietro la casa e poi ci ributta nel mezzo del cortile, e, successivamente, verso il paese, dove sbuchiamo vicino al lavatoio.

Che strano effetto non vedere più strade, cancelli, siepi, reti. Di certe casupole resta ormai fuori solo il tetto, e bisogna stare attenti a non passarci sopra. Oltre la piazza chiamano, e prendiamo su una quindicina di persone; tutti bimbi e donne, più due uomini. Siamo così carichi che non c'è posto neanche per sederci. Sto accavallato a prua con i piedi nell'acqua e l'impressione è come di una mano fredda che mi stringa gli stivaloni di gomma. Così però sono almeno sicuro di restare sveglio. Giunti al ponte della Busa, a momenti andiamo a cozzare contro il parapetto. Comincio ad avere paura e mi chiedo che razza d'idea sia stata quella di venirmi a cacciare in un pasticcio del genere, mentre potrei essere tranquillo sotto le coperte. Le donne intanto cominciano a lamentarsi, e i bambini a strillare, perché hanno paura delle ondate che il vento ci scaraventa contro. Una vecchia prova a iniziare il rosario, ma le rispondono solo in due o tre, poi più nessuna. Sono paralizzate dallo spavento. A un nuovo urto che ci fa sbandare, alcune donne scoppiano istericamente in pianto, e i figli spaventati si agitano, mettendo in difficoltà quelli che remano.

Marangoni cerca di calmarle con buone parole, ma io grido che se non la smettono, alla prima casa che incontriamo le mettiamo giù. Se non si fa in questo modo, il rischio è di annegare tutti, perché la barca sovraccarica pesca maledettamente. Fra l'altro di pazienza non ne ho più nemmeno un briciolo, perché sono stanco e ho paura, e noto che i volti dei marinai sono preoccupati. Anche Marangoni è divenuto stranamente serio, perché invece di sollecitare i marinai adesso tormenta nervosamente con le dita il mozzicone della sigaretta. Fortunatamente è mattino inoltrato e si distingue bene tutto, le case, gli alberi, la scarpata ferroviaria, sicché la rotta da seguire è abbastanza facile. Scorgo anche le torri e i campanili di Rovigo. Eppure non è che ne gioisca. Guardo con indifferenza, come fossero segni di un altro mondo. Infatti quello che fino a ieri mi parlava familiare, suadente, e che durante le passeggiate fuori porta mi riempiva di tenerezza, ora mi rimane stranamente lontano, e il disco sulla linea ferroviaria, il ponte di ferro, la fila di pioppi lungo i condotti non sono più quel disco, quel ponte di ferro, quella fila di pioppi, ma più semplicemente un disco, un ponte, una fila di pioppi. Forse sarà un tiro della stanchezza, perché ho le gambe intirizzite e al posto dei piedi mi sembra d'avere due pesci. Mi volto a guardare Marangoni, e con sorpresa lo vedo fumare tranquillo, imperturbabile. Mi sorride e, in dialetto, grida serro rivà. Infatti non facciamo neanche in tempo a raggiungere un nuovo gruppo di case, che Spumoldi e tutti gli altri uomini della San Marco ci salutano con grandi urla. Alcuni agitano scherzosamente i fazzoletti.

Temevano che ci fosse capitata una disgrazia, e stavano già pensando di venirci in aiuto.

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