Per capire meglio il senso di La Spagna vuota di Sergio del Molino (Sellerio, pagg. 394, euro 16; trad. Maria Nicola) è necessario qualche ragguaglio geografico. La Spagna ha una popolazione di 46 milioni di abitanti per una superficie di 504mila kmq. Se la si paragona con un Paese poco più grande come la Francia, si vedrà che quest'ultima ha circa venti milioni di abitanti in più; se invece il paragone lo si fa con un Paese relativamente più piccolo come l'Italia, 357mila kmq, anche qui si avrà un surplus di 15 milioni. Più nello specifico, la «Spagna vuota» tratteggiata da del Molino è composta dalle comunità autonome di Castiglia e Léon, Castiglia-La Mancia, Estremadura, Aragona e La Rioja, in sostanza il centro dell'intero Paese nonché la sua metà abbondante, ma vi abita appena il 15,8% di tutta la popolazione, 7 milioni di persone. Inoltre, esclusione fatta per Madrid («un grande buco nero intorno al quale orbita un grande vuoto»), in quel territorio è presente una sola città, Saragozza, che superi il mezzo milione di abitanti.
Le cifre, si sa, sono aride, ma aiutano a capire come il processo di emigrazione interna, urbanizzazione e spopolamento delle campagne che pure ha interessato il nostro Paese in specie dal secondo dopoguerra, sia ben poca cosa se raffrontato con quanto invece accaduto in Spagna, il «Grande Trauma» che nel giro di vent'anni ha trasformato un Paese rurale e contadino in qualcosa di radicalmente diverso: «C'è una Spagna vuota in cui abita una sparuta minoranza di spagnoli, ma c'è un'altra Spagna vuota che vive nella mente e nella memoria di milioni di spagnoli».
Si diceva di Madrid. Scrive Del Molino che uscire da essa «significa non incontrare una città degna di questo nome per più di trecento chilometri. Nessun'altra capitale del continente è circondata da tanto deserto». Questo deserto sta a simboleggiare un Paese scomparso, perduto, «irriconoscibile in quello fatto di porti olimpionici, di ristoranti firmati da famosi designer, di treni ad alta velocità, che tuttavia rimane ben vivo nel Geist familiare». Detto in altri termini, un Paese contadino può diventare urbano in un paio di decenni, ma alle persone non basta una generazione per adattarsi al cambiamento: «La campagna rimane dentro di loro, nei loro figli e nei loro nipoti».
Si dirà che la modernizzazione non contempla prigionieri, ma il discorso è storicamente più complicato. Rispetto all'800 italiano, dove il Risorgimento convive con il brigantaggio e l'aspirazione a essere nazione se la deve vedere con una moltitudine di regni e città-stato, retaggi di signorie, memorie comunali che assicurano comunque al suo territorio una compattezza di tradizioni che la innerva e la vivifica, l'Ottocento spagnolo vede una ben diversa invasione napoleonica, quindi una guerra di liberazione, una seconda invasione per ristabilire l'assolutismo, tre guerre civili, dodici colpi di Stato militari, una rivoluzione liberale e una ribellione di tipo federalista. «Le città erano sicure, ma nessuno poteva garantire l'incolumità di chi si avventurava nelle aree interne del Paese, lungo strade in pessime condizioni (le ferrovie erano pressoché inesistenti), infestate di briganti, bande di carlisti armati, soldati che tornavano dal fronte dopo aver combattuto per questo o quel generale, rivoluzionari d'ogni colore e guerriglieri in armi contro il governo». La Restaurazione di fine '800 e che si protrarrà sino allo scoppio della Grande guerra, significò per il centralismo borbonico confrontarsi con una nazione che di fatto era stata lasciata a sé stessa.
Nel '900 questo ritardo assunse i caratteri di una vera emergenza, ma all'incapacità monarchica e conservatrice nel colmarlo si aggiunse quella repubblicana e progressista che oltretutto leggeva il mondo rurale con le lenti distorte di un'ideologia per la quale il «campesino» era un nemico e quindi un ostacolo da abbattere, incompatibile con le leggi del divenire storico. La guerra civile del '36 fu anche, se si vuole, uno scontro fra le città e la campagna, la Spagna che si voleva moderna e la Spagna eterna e anche se il franchismo tradirà in seguito quest'ultima di cui pure si era proclamato il difensore: non è un caso che è al falangismo, ovvero al suo garante ideologico, che nel 1951 si deve quel film, Surcos (Solchi), in cui lo smarrimento contadino di fronte al «Grande Trauma» dello sradicamento viene raccontato con coraggio e senza sconti. «Questi falangisti indocili nutrivano preoccupazioni sociali. Avevano creduto nella retorica della rivoluzione e pensavano davvero che il Nuovo Stato dovesse essere uno stato sociale, e dare giustizia, pane e lavoro ai poveri. Non credevano nella carità. Alcuni credevano nell'egualitarismo, erano quasi dei giacobini. Erano convinti che il regime si fosse lasciato sconfiggere proprio da ciò contro cui lottava, che la Spagna avesse finito per diventare un Paese liberale come tutti gli altri, con la stessa meschinità capitalistica e lo stesso decadimento morale».
È un dato di fatto che «le politiche economiche di Franco, tese a industrializzare il Paese a qualunque costo, distrussero l'economia di molte aree fragili», ma ciò che restava del falangismo e del legittimismo carlista servì se non altro a difendere un'idea di dignità contadina e culto della memoria, delle tradizioni, del localismo linguistico, che all'indomani della fine del franchismo e poi della compiuta transizione democratica, vennero anch'esse spazzate via in nome di una modernizzazione che non era più solo economica, ma culturale, di costume, l'idea di una «nuova» Spagna che non dovesse avere più niente a che fare con quella «vecchia», non più «eterna», ma inutile e da dimenticare.
Classe 1979, del Molino è un quarantenne nato e cresciuto proprio in questa Spagna «techno-pop finalmente europeizzata» e se per età non ha conosciuto gli sconquassi provocati dalla dittatura, non per questo è insensibile ai problemi creati dalla democrazia. Del resto, ormai, come durata, franchismo e sistema parlamentare si equivalgono e sarebbe difficile imputare unicamente al primo scelte economico-industriali che il secondo ha per molti versi intensificato.
Del Molino rifiuta le cosiddette «spiegazioni totalizzanti», la reazione «contro l'omologazione globalizzata», oppure «la ricerca di una trascendenza che il capitalismo consumistico nega». Le rifiuta perché, se così fosse, ci dovrebbe essere una reazione di massa, non minoritaria quale invece di fatto è. La rifiuta anche in nome di una sensibilità intellettuale: «Noi non cerchiamo un utero capace di darci calore e certezze in tempi liquidi e banalizzati, cerchiamo il nostro stesso corpo e la nostra coscienza. Toccare quelle rovine, camminarci in mezzo è camminare dentro di noi. Noi non esploriamo quel paesaggio, lo siamo. Siamo quella Spagna vuota, siamo fatti dei suoi frammenti.
Questa è l'unica forma di patriottismo plausibile per uno spagnolo». Così questo libro racconta un ultimo paradosso, «un Paese che non esiste più, ma che assai spesso ci appare più forte e più solido del Paese che invece esiste».
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