L'antologica di Marina Abramovic con aggressione inclusa e l'ennesima boutade di Banksy. Maurizio Cattelan che «gioca» con i falsi e il quadro prodotto da un algoritmo. Tutto è pop, super-pop, la ricerca e l'avanguardia hanno lasciato il posto ai più miti linguaggi della comunicazione, costretti ad addomesticarsi per conquistare un più ampio consenso, un po' come quando il rap arriva a X Factor e dice qualche parolaccia per far finta di continuare a essere trasgressivo.
E l'Italia? Tanto Novecento, da studiare, rileggere, approfondire, perché nel XX secolo la nostra arte godeva di un prestigio che oggi ha indubbiamente smarrito: la straordinaria «Zang Tumb Tuuum» alla Fondazione Prada, la retrospettiva di Carlo Carrà a Palazzo Reale, la rilettura della controversa figura di Margherita Sarfatti al Museo del Novecento, con appendice al Mart di Rovereto. Tutto questo a Milano, dove l'offerta di mostre è sempre più ampia e capillare, destinata entro il prossimo gennaio ad arricchirsi di una nuova Fondazione, l'ICA che prende il nome dal celeberrimo istituto londinese.
Un 2018 dell'arte, insomma, all'insegna della tradizione o comunque del consolidato, e non è la prima volta che lo sguardo retrospettivo prevale sugli scenari futuri. Persino l'Ottocento risulta in pieno rilancio, dopo decenni di indifferenza. Si direbbe che una proposta storicizzata funzioni assai meglio delle mostre che promettono novità, contaminazioni, sperimentazioni, a cominciare da Manifesta, la biennale itinerante sbarcata la scorsa estate a Palermo. Se le fonti amministrative parlano di ottima riuscita (con oltre 400mila visitatori, peraltro difficili da contare e da separare dai turisti presenti in Sicilia non per l'arte) chi ci è andato per questo (ossia per l'arte) si è imbattuto nella solita kermesse diffusa in luoghi fantasma, poco segnalati, aperti a orari imprecisati; a Palermo si è parlato soprattutto di feste, party, djset, integrazione (ancora!) e si è vista pochissima arte degna di tale nome, ma ormai questa è abitudine.
Così come è abitudine lamentarsi della mancanza di fondi, dei tagli, di governi che non investono più nella cultura, nei privati che ci credono poco. Leggendo la nuova finanziaria sembra che i musei romani di Stato saranno i più colpiti, proprio loro cui l'ex ministro Franceschini diede un sacco di soldi. A fronte di cosa? Il MAXXI non è mai riuscito a inserirsi nel circuito delle grandi mostre, ha una programmazione spezzatino tipo campionato di calcio e rispetto agli omologhi europei ha una ricaduta economica e culturale irrilevante. La Galleria d'Arte Moderna di Valle Giulia ha ottimamente rimesso a posto collezione e ambienti, ma di mostre in pratica non ne fa. C'è da chiedersi allora a che servano così tanti soldi per una programmazione di secondo piano e perché sui costi di gestione degli spazi e del personale conclamati direttori o presidenti non siano in grado di ottimizzare le voci di spesa.
La questione dei musei è ancora calda in un sistema dove la mancanza di idee si nasconde dietro le ristrettezze economiche. Guardiamo a esempio al Mambo di Bologna, una struttura molto bella, costosa da mantenere, cui non possono bastare mostre curiose ma di nicchia (gli artisti italiani nati negli anni '80) per tirarsi su. L'idea del giovane direttore Lorenzo Balbi di trasformare il museo in una Kunsthalle non sta in piedi, mentre il suo predecessore Gianfranco Maraniello al Mart continua la saggia politica di proporre focus storicizzati accanto a figure della contemporaneità. Per il 2019 ci aspettiamo il rilancio del Centro Pecci a Prato - è annunciata in primavera una mostra sul rapporto fra Pier Paolo Pasolini e Fabio Mauri curata da Francesco Vezzoli -, di sapere qualcosa di più sulla Quadriennale di Roma - altro oggetto misterioso che si sta diluendo in bandi, residenze e non si sa bene che cosa, quando da statuto dovrebbe proporre il meglio dell'arte italiana - di vedere una Biennale di Venezia, affidata all'americano Ralph Rugoff, un po' più ficcante di quella della scorsa edizione.
Non solo mostre, non solo musei. Ci sono le fiere - Artissima resta la più cool, Miart continua l'inseguimento, Art Verona lentamente migliora, Arte Fiera di Bologna deve trovare il modo di tirarsi su cambiando per l'ennesima volta il direttore anche se il problema evidente è l'eccessivo spazio destinato al secondo mercato -e i risultati d'asta nell'Italian Sale a dimostrare ancora una volta che l'arte italiana è competitiva fino agli anni '70, poi si ferma. Non si intravede un ricambio generazionale concreto, gli over 50 non interessano più a nessuno e i giovani inseguono il plauso sempre più risicato del sistema, invece di produrre opere corpose e ambiziose. Insomma, per un trentenne è importante varcare la soglia di quelli che un tempo furono i luoghi mitici del consenso, dove per assurdo va in scena la più falsa parodia dell'arte sociale, del femminismo, delle migrazioni, della tolleranza e mai che ci si ricordi di un quadro, di una scultura, di un'installazione, di un video, di qualcuno che abbia da dire qualcosa.
Ecco perché l'Arte Povera, pur con il suo carico di ideologia sessantottina, non ha perso di forza: perché l'aspirazione di allora stava nell'universalità, proprio come accade oggi nell'arte africana, che secondo David Zwirner, il mercante più influente dell'attuale art world, rappresenta
davvero ciò che c'è di nuovo sul pianeta terra. E non la solita litania delle migrazioni, ma il lavoro coraggioso di uomini e donne che hanno scelto di rimanere nei propri Paesi a interrogarsi sul senso della loro cultura.
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