Per gentile concessione dell'editore Sem pubblichiamo un ampio brano da "Martini Shot" di George Pelecanos (pagg. 272, euro 18). Si tratta di una raccolta di otto racconti dell'autore americano di origine graca, celebre oltre che per i suoi romanzi, tradotti in tutto il mondo, per il lavoro di sceneggiatore.
Aveva cominciato a nevicare. I fiocchi volteggiavano nei coni di luce formati dai lampioni. Mi diressi verso il negozio di Giant Liquors sulla Georgia e comprai una pinta di vodka Popov, che tracannai mentre tornavo sulla Quebec. Al di là di Park Place si stendevano i terreni della Soldiers' Home, circondati da una recinzione di ferro nero con i pali che terminavano a punta di lancia. Era molto buio e le nuvole bloccavano la luce della luna, ma io conoscevo quella zona come le mie tasche. Da bambino avevo pescato nel lago un'infinità di volte e avevo dato la caccia alle oche che stazionavano da quelle parti. Ora sopra le lance c'erano tre linee di filo spinato per tenere lontano i bambini e i giovanotti che amavano fare sesso con le loro ragazze sull'erba tenera.
Certe sere io e Sondra lo scavalcavamo, l'estate prima che io mi ritirassi dalla Roosevelt High School. Io portavo un po' di erba, una bottiglia di vino con il tappo a vite e il mio walkman, e andavamo a sederci sulla riva del lago. Mentre fumavo, lei ascoltava la musica con le cuffie. Avevo fatto delle playlist, scegliendo dai miei dischi quello che poteva piacerle, come Bobby Brown e Tone Loc. Le parlavo delle auto che mi sarei comprato, dei completi che avrei indossato appena avessi trovato un buon lavoro. Le dicevo che non avevo bisogno di un diploma per procurarmi quel tipo di roba né per dimostrare quanto fossi in gamba. Lei mi guardava come se ci credesse.
Finì per sposare un avvocato con un ufficio sulla strada, a Shepard Park. Vivono in una casa a PG County, in una di quelle zone residenziali recintate. L'ho rivista una volta che era tornata da queste parti per far visita a sua madre. Spingeva i bambini in casa, come se avessero potuto ammalarsi respirando l'aria di Park View. Anche lei mi vide mentre camminavo, ma voltò la testa dall'altra parte, fingendo di non riconoscermi. Non mi fece né caldo né freddo. Può riscrivere la storia quanto vuole, ma quel fighetto di suo marito non avrà mai quello che ho avuto io, e cioè la sua fica quando era ancora nuova.
Mi infilai nel vicolo tra la Princeton e la Quebec. Il mio orologio, un finto Rolex che avevo comprato da un ambulante per dieci dollari, segnava le nove e cinque. Il detective Barnes era in ritardo. Tolsi il tappo della Popov e buttai giù una sorsata. Mentre scendeva la sentii bruciare. Richiusi la bottiglia e mi accesi una sigaretta.
«Psst. Ehi, tu».
Guardai verso l'alto, da dove arrivava la voce. Un ragazzo era affacciato da uno di quei portici di legno costruiti al secondo piano che si sporgevano al di sopra del vicolo. Alle sue spalle c'era una porta a vetri con dietro una tenda. Accanto a lui si vedeva la ruota di una bicicletta. Da queste parti i ragazzini le mettono sul portico per non farsele rubare.
«Che cosa vuoi?» gli chiesi.
«Niente di quello che puoi darmi» rispose il ragazzo. Sembrava sui dodici anni, era alto e magro con i capelli a treccine sotto il caschetto nero.
«Allora porta il tuo culetto dentro casa».
«Sei tu che gironzoli dove non dovresti».
«Io mi faccio i fatti miei. Niente compiti oggi?»
«Li ho già fatti a scuola».
«Dove vai, alla MacFarland Middle?»
«Sì».
«Anche io andavo lì».
«E allora?»
Mi venne quasi da sorridere. Aveva la lingua tagliente, ma il cuore grande.
«Che cosa ci fai qui?» mi chiese.
«Sto aspettando una persona».
In quel momento l'auto senza contrassegni di Barnes passò lentamente davanti all'imboccatura del vicolo. Si fermava sempre in cima alla strada, lo sapevo.
«Ti saluto, ragazzino» gli dissi, buttando via la sigaretta e ficcando la bottiglia nella tasca della giacca. Mi incamminai, sentendomi addosso i suoi occhi.
Mi infilai sul sedile posteriore dell'auto, una Crown Vic color blu notte. Mi abbassai fin quasi a sdraiarmi, la testa contro la portiera sotto il livello del finestrino perché dall'esterno nessuno potesse vedermi. È quello che faccio sempre quando sono in macchina con Barnes.
Svoltò a destra su Park Place e puntò verso sud. Non avevo bisogno di guardare fuori dal finestrino per capire dove fosse diretto. Il giro è sempre lo stesso: percorre Michigan Avenue, va verso est oltre l'Ospedale dei bambini, poi continua verso North Capitol e l'Università Cattolica, fino a Brookland e più in là. Alla fine fa una curva a novanta gradi e torna indietro.
«Hai freddo, Verdon?»
«Direi di no».
Barnes, spalle larghe e bella faccia, aveva la voce profonda. Il suo abbigliamento preferito erano gli abiti di Hugo Boss e i cappotti di cashmere. Come molti altri membri della polizia, aveva un folto paio di baffi.
«Parliamo di Rico Jennings» gli dissi.
«Da parte mia nessuna novità» dichiarò con una scrollata di spalle. «E tu?»
Non gli risposi. Era il solito balletto. Puntò gli occhi sullo specchietto retrovisore e incrociò i miei. Mi allungò un biglietto da venti al di sopra dello schienale e io lo presi.
«Mi sa che avete imboccato la strada sbagliata» dissi.
«E cioè?»
«Ho sentito che siete andati a tormentare i ragazzi di strada su Morton e avete battuto gli Eights casa per casa».
«Mi sembra il minimo, considerata la storia di Rico».
«La droga non c'entra».
«Ti dico di sì. Il ragazzo aveva dei precedenti per possesso e spaccio».
«Ma quella è un'altra storia. È roba vecchia, successa prima che mettesse la testa a posto. Senta, ho fatto le elementari con sua madre. Conosco Rico da quando era bambino».
«Che cosa sai esattamente?».
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