Nelle "Vite di Balzac" l'arte dell'invenzione rende vera la realtà

Le migliaia di tipi umani creati dallo scrittore abitano un mondo parallelo in cui riconoscersi

Esiste la vita di Balzac, ed esistono le vite di Balzac. La prima è vera, le seconde immaginarie, ma, come ammoniva Oscar Wilde, «le sole persone reali sono le persone che non sono mai esistite». Ed è sempre di questo scrittore amante del paradosso l'osservare che il XIX secolo, nel modo in cui lo conosciamo, è in gran parte un'invenzione di Balzac, con i suoi oltre duemila personaggi, di tutte le sfere sociali, di tutti i tipi di carriere, esponenti di un nuovo mondo che prende sgomitando il posto dell'Ancien Régime che lo aveva preceduto, e dove ogni cosa sembra possibile, a patto di trovare i soldi necessari per comprarsi un nome, una reputazione, un matrimonio, un posto, una casa...

Scrittore che assiste alla nascita di quella che sarà la modernità, Balzac ne è per certi versi la guida più preziosa e il termometro più sensibile: lo strapotere del denaro, la lotta per l'egemonia sociale e politica, il primato dell'individuo a svantaggio della coesione sociale, il predominio della città e dell'industria rispetto alla provincia e alla campagna, il proletariato urbano e l'ambizione con cui esso si muove alla conquista di un posto al sole che non è tanto un desiderio quanto un senso di rivalsa.

Tutto ciò che nei suoi romanzi è agli albori, un ribollire dove ciò che è stato lotta faticosamente, quanto invano, per non essere del tutto travolto dal nuovo che avanza, due secoli dopo è perfettamente compiuto, ma proprio mentre celebra il suo trionfo ne deve verificare l'intimo fallimento. Il denaro si è trasformato in finanza, volatile per sua definizione, l'uomo-merce ha preso il posto della merce in quanto tale, la borghesia come classe sociale non esiste più, le metropoli-megalopoli si rivelano invivibili, l'atomismo sociale portato agli estremi diventa nomadismo globale... Come per un tragico contrappasso, populismi e nazionalismi tornano alla ribalta e con essi, in maniera confusa, un bisogno di solidità e di ancoraggio a valori più o meno ancestrali e dati per scomparsi: tradizioni, radici, costumi di vita, difesa del territorio, senso di appartenenza, desiderio di rappresentanza. Come una cartina di tornasole, quel mondo balzachiano ci mette sotto gli occhi il futuro in anteprima, ne avverte i pericoli, suggerisce, dove e come può, i rimedi per non esserne completamente fagocitati.

Conservatore, ma non reazionario, Balzac pesca da destra come da sinistra nel suo rifiuto di considerare il denaro come unico nesso delle relazioni umane nel nuovo ordine che va instaurandosi. Nemico di ogni restaurazione, sa però che ogni rivoluzione è destinata a fallire se non crea una reale gerarchia di valori, se abdica alla sua funzione di creare nuove élites, se non costruisce un corpus sociale dove le capacità individuali non anneghino nel maelstrom indistinto dell'economia come unica guida politica.

Vite di Balzac (Carocci editore, pagg. 217, euro 18, traduzione di Giuseppe Episcopo) si intitola questo bel saggio di Peter Brooks, che dell'autore della Commedia umana è uno dei massimi esperti contemporanei. L'assunto che lo guida è l'esatto contrario di quella corrente critica che, da Sainte-Beuve in poi, ha visto nella biografia di uno scrittore la chiave di volta per capirne l'opera. Per Brooks, «l'arte e la vita non sono in continuità, l'Io che scrive non è lo stesso Io che vive, e un simile tentativo di psicoanalisi può, al massimo, dare un risultato tautologico, scoprendo nella psiche del suo autore ciò che egli ha già messo nelle sue opere». Più interessante, tornando a quell'aforisma iniziale di Oscar Wilde, è interrogarsi sul perché dell'immaginazione sfrenata di Balzac, su quella che si può quasi definire una «incontinenza creativa», un qualcosa che, scrive Brooks, forse era una «compensazione della sua vita reale, un mondo fantastico in cui fuggire, trionfante, da un'esistenza priva di denaro e di amore». Eppure, da questo punto di vista, la vita stessa di Balzac non fu priva dell'uno e dell'altro, nonostante i ripetuti rovesci economici, nonché le numerose liaisons non sempre fortunate. Balzac fu un uomo di successo, sposò la donna che amava, fece della sua penna una professione, ma, a differenza di tanti altri scrittori che la misero al servizio dell'industria e del mercato editoriale, pochi come lui hanno massacrato le bozze pronte per la stampa di interi rifacimenti, riscritture, vere e proprie aggiunte... Più giusta è un'altra osservazione di Brooks, l'essere noi stessi, in quanto esseri umani, sognatori ad occhi aperti, «creature della fantasia e della finzione, poeti e romanzieri delle nostre vite, che affrontano restrizioni e limitazioni del nostro breve passaggio sulla terra inventando storie di ogni tipo. Attraverso le finzioni troviamo spazio in un mondo che non è nostro, noi che siamo ancor meno noi stessi. Come confermano psicoanalisti e psicologi dell'infanzia non possiamo affrontare la realtà senza delle storie da inventare».

È quella di Brooks una considerazione perfettamente in linea con Proust e il suo perché del romanzo, ovvero il possedere altri occhi, «vedere l'universo attraverso gli occhi di un altro, di cento altri». Per il Proust romanziere, le persone reali risultano opache al nostro sguardo, il che vuol dire, esplicita Brooks, che «per pensare, sentire, vedere attraverso gli altri, abbiamo invece bisogno di un'immagine del reale». L'immagine altro non è che una creatura finzionale, grazie alla quale la realtà conosciuta empiricamente, e quindi di portata ridotta, si trasforma in reale nel senso pieno del termine, perché viene fatta nostra, è in noi che essa si produce. In questo senso per il Proust del Tempo ritrovato, «ogni lettore quando legge è il lettore di sé stesso. L'opera è una sorta di strumento ottico che lo scrittore offre al lettore per consentirgli di scoprire ciò che forse, senza il libro, non avrebbe visto in sé stesso».

In sostanza, leggendo Balzac, leggendo i suoi personaggi, scrive Brooks, «vediamo meglio il nostro io rappresentato rispetto a quello vero. Tutti i suoi personaggi rappresentano ciò che può significare vivere, amare, giocare e morire in modi che non possiamo sperimentare da soli. Le loro vite sono dei modelli. I personaggi romanzeschi sono un laboratorio per conoscere il mondo».

Nella Commedia umana di Balzac le sue vite inventate vivono di vita propria: è un mondo autosufficiente e autoreferenziale; i personaggi migrano da un testo all'altro e da un testo all'altro acquistano spessore, rivelano ciò che sono nel profondo di loro stessi, agiscono da soli.

Balzac viveva talmente nel mondo da lui inventato, che in punto di morte chiederà di essere visitato dal dottor Bianchon, un medico che esisteva solo in quanto frutto della sua immaginazione romanzesca. Eppure è ancora Wilde a dirci che la morte di Lucien de Rubempré, ovvero il protagonista delle Illusioni perdute di Balzac, era stata uno dei dolori più grandi della sua vita...

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