"Niente moralismo, l'ironia non ci salverà ma almeno ci diverte"

Lo scrittore:"La mia vita è lieve e io voglio solo raccontare storie. Senza dare giudizi"

"Niente moralismo, l'ironia non ci salverà ma almeno ci diverte"

Dal nostro inviato a Bellano (Lc)

Andrea Vitali, quanti romanzi ha scritto? «Non lo so. Non li ho mai contati». Sembrerebbero una sessantina, a scorrere il catalogo dell'editore Garzanti, che ha pubblicato i suoi libri più famosi e venduti, da Una finestra vistalago a Almeno il cappello, da Olive comprese a Viva più che mai. «Però io considero romanzi solo quelli che ti fanno penare, lavorare un po'» dice lo scrittore a un tavolino affacciato sul lago della sua Bellano, ramo (orientale) del lago di Como che fa da sfondo a tutte le sue storie. Come l'ultima: Bello, elegante e con la fede al dito, protagonista «una specie di bamboccione, oculista nato nella bambagia», che a quarant'anni «interagisce con l'universo femminile in modo un po' semplicistico».

Il titolo fa già sorridere. Come le è venuto in mente?

«È un endecasillabo, ha una sua metrica. Fa sorridere per il particolare della fede al dito: induce il sospetto che ci sia qualcosa che non quadra. Il titolo per me è parte integrante della storia: deve essere frutto di chi scrive il libro».

Anche l'umorismo è centrale.

«L'ironia è presente innanzitutto nella mia vita. Vengo da una famiglia numerosa, sono il primo di sei fratelli. Ci siamo sempre presi per il culo, in casa».

Ispirazioni letterarie?

«Da giovane ero un lettore di Guareschi e Piero Chiara. Amo questo modo di raccontare le cose, anche difficili, usando l'ironia e l'autoironia».

Altri riferimenti?

«Parise, Orengo, Vargas Llosa, García Márquez. E poi altri molto seri, severi».

Per esempio?

«Ho avuto una folgorazione per Dürrenmatt: ironia svizzero-tedesca, devi impegnarti per capirla bene. Come Sciascia. In alcuni l'ironia è dichiarata, in altri devi grattare sotto la vernice».

Nei suoi è dichiarata. Perché?

«Da queste storie voglio sia alieno qualunque tipo di giudizio. Ho fatto il medico per 25 anni: fra tante cose mi ha insegnato a non giudicare. A riflettere sulle condizioni in cui ti puoi trovare e sugli errori che puoi commettere».

Come ottiene la leggerezza?

«È un derivato della lievità della mia vita. Qualche anno fa ho avuto un periodo di depressione; mi sono curato e oggi apprezzo cose minimali, che sembra sciocco dire. Sono attento a raccontare cose che mi divertano: se ti diverti, è più facile far divertire».

Scriveva fin da giovane?

«Sì, sì. Poesie vergognose. Le ho bruciate».

Qual è stata la svolta?

«Capire che per scrivere storie devi sapere che storie vuoi scrivere. E poi riscoprire questo luogo qua, Bellano, e trasformarlo nel teatro delle mie storie: viverlo non solo come luogo quotidiano, ma come teatro dell'immaginario».

Si sente vicino a Piero Chiara?

«Per gli ambienti sì. Poi la sua scrittura era più precisa, controllata, e un pelino più cattiva».

In che senso?

«Non vorrei essere frainteso. Ma credo che Chiara non abbia avuto una vita lavorativa divertente: aveva maturato una certa acredine verso l'umanità che ha sfogato in certi suoi personaggi. Poi ci sono analogie ovvie per il lago, il piccolo borgo, gli intrighi...»

Che cosa accomuna le sue storie?

«Il sapore di un'epoca ormai alle spalle, tramontata. A volte nascono da una banalità, a volte da racconti ascoltati, da cose raccolte qua e là. Ascoltare la gente chiacchierare - e io l'ho fatto molto - dà numerosi appigli».

Fare il medico l'ha aiutata?

«Tantissimo».

Dicono che sia «popolare».

«A me sta bene. Non mi disturba. Non pretendo di salvare le sorti del mondo, sono consapevole dei miei limiti narrativi: sono storie. Ma sono un lettore anche io, e i romanzi che amo raccontano storie: dalla Sicilia di Camilleri al Giappone di Murakami, sono le storie che mi fanno stare bene».

Vende troppo? Nel senso che è «commerciale»...

«Vendo? Meno male. È contento anche l'editore».

I suoi non sono dei «gialli».

«Diciamo giallognoli. Non ho nessuna intenzione di inventare l'ennesimo commissario o vicequestore. C'è il mistero: un elemento fondamentale, affinché la storia non diventi una linea piatta. Non può mancare».

La provincia ha i suoi scheletrini?

«Oh, più di uno scheletrino. La provincia patisce il luogo comune di essere come un grande ospizio: invece la abitiamo noi esseri umani. Si campa di odi, amori, invidie, gelosie, dolori... Certo tante cose tendi a nasconderle, altrimenti sarebbero subito in piazza».

I personaggi come nascono?

«Da una osservazione reale; poi ci lavoro, finché mi diventano intimi. Per esempio, quello lì, lo vede? Come macellaio o mediatore di bestiame non è male».

E i nomi?

«Mi diverto sempre di più a cercarli. Sono un appassionato dei calendari di Frate Indovino, li tengo da parte ogni anno. Il nome è una componente fondamentale del divertimento e dell'ironia: allontana subito la storia dalla realtà e la fa diventare verosimile».

Il linguaggio è quasi parlato.

«Sì, perché io parlo molto il romanzo, in casa: lo leggo ad alta voce a mia moglie, così mi accorgo se il ritmo non funziona. Lo asciugo. Nella vita reale usiamo un numero minimo di parole. Anche il dialogo, su cui amo molto lavorare, deve essere applicabile alla realtà, agile».

Per questo i capitoli sono così brevi?

«Anche perché spesso ci sono più storie: con i capitoli brevi puoi inserire più personaggi, senza disperderti nella narrazione».

Servono anche alla velocità?

«Sì. Il ritmo nella narrazione mi intriga molto: è indispensabile».

È veloce anche a scrivere?

«No. La cosa che mi fa produrre tanto è l'attività quotidiana: il fatto di mandare avanti la storia tutti i giorni, poco o tanto. Così, a fine anno, un paio di storie le porti a casa. Poi ho un archivio di vecchie storie da rielaborare, abbastanza ricco: il materiale non mi manca».

Come costruisce la trama?

«Non la costruisco, aspetto che si faccia da sé. Ho una idea abbastanza precisa della fine, la narrazione deve spiegare tutto quello che c'è prima».

Il suo libro preferito?

«L'Odissea. È così piena di elementi che tutti gli scrittori venuti dopo hanno usato. Fra i romanzi, La promessa di Dürrenmatt».

E fra i suoi?

«Pianoforte vendesi: un racconto lungo, pieno di quel senso magico che questo posto riesce ancora a instillarmi nell'anima, questo senso di favola, che mi metteranno anche nella cassa».

Che cos'ha «l'aria del lago»?

«Eh, che cos'ha. Niente di speciale. Ma fondamentale è che, se ci cresci dentro, non puoi più farne a meno».

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