Non imitate Marilyn Monroe

La bionda Michelle le somiglia e recita con star come Branagh e la Watson. Ma non coglie l’essenza di colei che Capote definì "la bellissima bambina"

Non imitate Marilyn Monroe

Nel 1957, Laurence Olivier, il più grande e il più titolato attore shakespeariano del suo tempo, decise di rinnovarsi e di trovare anche nel cinema un nuovo spazio consono al suo talento. C’era una commedia di Terence Rattigan, altro mostro sacro del teatro, Il principe addormentato, con cui anni prima aveva trionfato sulle scene a fianco di Vivien Leigh, la Scarlett di Via col vento e poi l’eroina di Un tram che si chiama desiderio. Intanto Vivien aveva però superato i quarant’anni e per la parte di Elsie, la ballerina provocante e naif che faceva girare la testa all’austero e maturo aristocratico, si pensò a Marilyn Monroe, che ne aveva dieci di meno e fra Giungla d’asfalto, Eva contro Eva, Niagara, Gli uomini preferiscono le bionde, Come sposare un milionario e Quando la moglie è in vacanza, era allora la più famosa diva di Hollywood, anche se la sua bellezza congiurava a offuscarne il talento. L'idea che sapesse recitare veniva, dai più, considerata una bizzarria.
Era l’incontro fra due mondi e due stili, una sorta di «la bella e la bestia» a sessi invertiti; ma ci fu anche chi disse, colpendo più o meno consapevolmente il narcisismo di Sir Laurence, che nel caso in questione entrambi gli elementi erano in unica testa e un solo corpo: quello di lei.
Di là dalle tristezze, debolezze, paranoie, complessi, la Monroe non era per nulla una donna stupida: aveva humour e aveva cuore, era sottile e buona psicologa. Capì subito, per esempio, che, come tutti gli inglesi, Olivier «ci pensava due volte prima di scambiare qualsiasi cosa, anche gli organi sessuali». Gli piaceva farsi avanti, e poi tirarsi indietro. «Sei la più bella donna che abbia mai visto», le aveva detto. «No, lo saresti, se la punta del tuo naso non fosse ridicola». Lei si era limitata a dargli uno schiaffetto sulla mano.
Come tutti gli attori di tradizione, Laurence Olivier non improvvisava mai e recitava anche nella vita. «Gli attori sanno parlare solo con le parole altrui», spiegò una sera a Marilyn. Erano a cena e l’aragosta da lui ordinata arrivò in tavola con una sola chela. Viva sino a un momento prima, spiegò impassibile il cameriere, era rimasta vittima di un feroce combattimento con le sue consorelle nella vasca dov’era tenuta in cattività. «Non è abbastanza brava» replicò Olivier. «Portatela via e tornate con la vincitrice». Eclissatosi il cameriere, disse alla sua ospite: «È una battuta di Feydeau». «Fido?» domandò sorpresa Marilyn. «Non credo che i cani - salvo qualcuno - si siano messi a scrivere commedie, stupidina!», fu la risposta. La Monroe continuò a ridere per tutta la cena.
Con queste premesse, si capisce che la lavorazione del film fu, specie nei primi tempi, un disastro. Il principe degli attori odiava l’enfasi, il «metodo» dell’Actor’s Studio e dei coniugi Strasberg, riteneva che recitare fosse un lavoro, né più né meno di quello di un idraulico, con tempi e regole da rispettare, e niente di più; quanto all’istinto, diciamo così, animale, lo tollerava purché fosse addestrato. Nel ricordo di lei, «da regista, dava istruzioni all’operatore, poi accendeva una sigaretta e istantaneamente diventava il Principe. Stentavo a crederci. Io dovevo concentrarmi per ore per riuscire ad avvicinarmi a Elsie, il personaggio che facevo, eppure Elsie, tanto per cominciare, era molto simile al mio io reale».
Chi rivede oggi Il principe e la ballerina, film non eccelso, si accorge di una cosa che, nonostante tutta la prosopopea, ma anche l’intelligenza di Olivier, la Monroe aveva avvertito subito. «Era sì un vero principe, ma quel principe non aveva alcuna simpatia per me. Continuava a guardarmi come se fossi il punto dove il cane aveva appena fatto il suo servizietto». Gli mancava insomma quella «piccola incrinatura» atta a spiegare il perché di un innamoramento. «Recitava come se fosse fatto di metallo e lo lustrassero col polish tutte le mattine. Questo mi faceva sentire ottusa. Nessuno spettatore avrebbe potuto credere che sarei riuscita a farlo innamorare. E perciò sarei sembrata una stupida. Potevo recitare bene quanto volevo: non avrei ottenuto il risultato. Lo sapevo. Sento i guai prima ancora che si presentino con un nome preciso».
Se Il principe e la ballerina è ancor oggi guardabile, il merito è soprattutto della Monroe, perché a un certo punto della storia quella «piccola incrinatura» finalmente vien fuori, come se Olivier, sino ad allora troppo impegnato nel recitare un aristocratico meglio di un aristocratico vero, si fosse reso conto che di fronte a una bellezza simile non c’era da fare altro che abbassare la guardia, e arrendersi. Marilyn illuminava la scena, questa è la verità, soltanto con il suo essere una presenza viva, ed era questa vita a sciogliere la glacialità perfettamente composta del suo partner.
Adesso che di quella lavorazione, delle finzioni che le ruotarono intorno, degli scontri di carattere, dei pettegolezzi e delle incerte liaisons sentimentali che essa generò, il film Marilyn dà conto, con un cast di prim’ordine (Kenneth Branagh è Olivier, Michelle Williams la Monroe, Julia Ormond è Vivien Leigh, e c’è spazio anche per i camei di Judy Dench, Emma Watson, Toby Jones e insomma la meravigliosa scuola attoriale inglese), quanto finora detto risulta ancora più evidente.

Seppure brava e somigliante, la Williams non è la Monroe, ovvero la più seducente, luminosa e inerme donna che lo schermo abbia potuto immortalare, un corpo e un volto che si offrivano senza sapere né il come né il perché, un qualcosa di inquieto e di indifeso che arrestava il cuore, il pallore dorato di una carnagione altrimenti di latte, infelice e tormentata ragazza che, un anno prima che si suicidasse, Truman Capote avrebbe ancora ricordato come «una bellissima bambina».

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