Non possiamo incriminare i ragazzi di Fellini. Sarebbe un'autoaccusa

Il processo ai protagonisti del film finisce senza sentenza popolare. Ecco perché...

Non possiamo incriminare i ragazzi di Fellini. Sarebbe un'autoaccusa

Ve lo ricordate l'ormai celebre processo storico che ogni anno, da un ventennio, viene organizzato il 10 agosto a San Mauro Pascoli, nel Cesenate? Magari sì, ha visto finire alla sbarra figure del passato come il Passatore di Romagna, Benito Mussolini, Garibaldi, Pellegrino Artusi, persino Giulio Cesare. Ecco, nessun dibattimento era mai finito in un pareggio. La giuria popolare aveva sempre fulminato verso il giudicando di turno una assoluzione o una condanna.

Bene quest'anno, per la prima volta, giudicando non un uomo ma i personaggi di un'opera cinematografica - I vitelloni del geniale duo Fellini/Flaiano - la giuria popolare non ha emesso un verdetto. Con un incredibile pareggio, 219 sono stati i voti raccolti per la condanna e altrettanti per l'assoluzione, in una platea di oltre 450 persone accorse alla Torre pascoliana per «il dibattimento».

Tanto per chiarire bene il nodo del contendere ecco una summa delle tesi dell'accusa sostenuta dalla giornalista Daniela Preziosi: «i Vitelloni restano un monumento alla peggio gioventù maschile, regredita al comodo eterno stato infantile, mammoni e traditori, bandiere di un'inconcludenza che è indifferenza. Bighellona, bovina, bulla, banale, irredimibile. In una Italia che riparte dopo il dramma della Guerra, i Vitelloni rispondono con l'emblematico gesto dell'ombrello di Alberto Sordi a chi lavora». E ancora: «Sono personaggi irriscattabili, vanno condannati senza appello. Salvo solo Moraldo, quello che alla fine del film se ne va. Il personaggio è Fellini, solo per lui chiedo l'assoluzione».

La difesa invece è stata affidata ad uno dei più assidui collaboratori di Fellini Gianfranco Angelucci: «Io non difendo il Vitellone ma lo elogio: è l'archetipo dilatato dell'Italia. La società ci rende ingranaggi di un sistema, il Vitellone esce dagli schemi. È un non integrato, un individualista che risponde solo a sé stesso... È un sentimentale con le donne, le fa piangere ma lui piange insieme a loro. Il Vitellone non vince guerre perché non le fa e non le provoca». E poi ha citato una battuta dello stesso Flaiano: «La bandiera dei Vitelloni è mi spezzo ma non mi impiego». Che in un mondo dove tutto ha un prezzo, libertà compresa, suscita il sorriso ma fa nascere anche qualche sano dubbio sul fatto che sia sempre giusto farsi catalogare e inglobare dal sistema.

E di fronte a queste due appassionate arringhe ecco la paralisi del giudizio: l'imprevedibile parità. Così al al presidente del «Tribunale» Gianfranco Miro Gori non è rimasto che prendere atto ed emettere un non verdetto.

Certo, è solo un gioco ma potremmo dire che è un gioco dal responso interessante. Fellini, essendo un genio, è riuscito, correndo l'anno 1953, a inserire il dito nella presa della psicologia di un intero Paese e a provocare un cortocircuito che ci accompagna ancora oggi. Siamo un Paese di gente che lavora, ben rappresentato nella pellicola dalla generazione dei padri. Siamo un Paese di gente che segue le regole, lo abbiamo visto anche nel recente loockdown, mutatis mutandis. E per fortuna. Ma se fosse tutto lì... Se fosse tutto lì non avremmo nessuno spazio di libertà. E invece i Vitelloni di Fellini sono quelli che continuano a suonare anche mentre la festa del paese, dove è stata eletta una reginetta «inguaiata», viene travolta dal temporale. Sono quelli che hanno un guizzo di irrisione verso tutti. Sono leggeri, fatui ma in fondo vivi. Un po' come il runner che non capisce perché se corre a cinquecento metri dall'umano più vicino lo debba inseguire la polizia.

Nei Vitelloni c'è tutto il male dell'edonismo e dell'individualismo italico e tutto il bene. Ed ecco che allora si sospende il giudizio, come guardando una nostra foto giovanile con pettinatura improbabile e poi confrontandola con la nostra faccia di oggi allo specchio, migliore il taglio però che rughe tristi... Che faccia da schiaffi quella di allora certo, però era la nostra, la più vera, onesta. E quel ritratto felliniano della piccola rivolta individuale, a volte un po' menefreghista, non può essere soggetto a sentenza. Non ne abbiamo il cuore, non abbiamo le pietre da scagliare, le dovremmo levare dalle fondamenta dell'io. Molti dei migliori film del nostro Paese non hanno fatto che riproporre e declinare quello spaccato che Flaiano e Fellini avevano già colto: Da Il sorpasso, passando per la Grande guerra ed arrivando ad Amici miei.

Ovvio che sia più

facile giudicare Giulio Cesare. Non ha mai fatto (che si sappia) il gesto dell'ombrello e non se l'è mai visto fare a sfregio mentre stava faticando come un cane. E invece tutti noi, siamo stati ombrelliferi ed ombrellati...

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