Cultura e Spettacoli

Oliver Stone e l'ossessione (indomita e politicizzata) per JFK

Il regista statunitense ha presentato alla stampa JFK - Destiny Betrayed, serie in quattro episodi in cui riesamina i nuovi documenti fino ad oggi secretati riguardanti l'omicidio Kennedy

Oliver Stone a Roma con la sua ossessione, indomita e politicizzata, per JFK

Con Oliver Stone continua la sfilata di presenze di lusso alla Festa del Cinema di Roma. Ieri il regista statunitense ha incontrato la stampa e confermato di essere ancora entusiasta ostaggio di una nobile fissazione: scoprire chi sia l’assassino di John Fitzgerald Kennedy.

L’occasione era la presentazione di “JFK – Destiny Betrayed”, la nuova serie in quattro puntate che Stone ha dedicato alla morte del presidente americano. Dall'uscita del suo film “JFK – Un caso ancora aperto” nel 1991, il cineasta non ha mai smesso di pensare e lavorare sull'argomento. E' un inorgoglito Oliver Stone a confermarlo da subito: «Se a trent’anni di distanza non ho ancora abbandonato il mio impegno di inchiesta e ricerca su un così importante avvenimento è perché ci voleva qualcuno che fosse determinato a rivelarne i retroscena, dal momento che i media non se ne sono occupati».

Il punto è che, da allora, sono stati desecretati circa sessantamila documenti la cui disamina ha potuto coinvolgere scienziati forensi, medici, esperti di balistica, storici e anche testimoni.

«Il mio film si basava sui fatti che conoscevamo all’epoca» precisa, ricordando che «proprio lo scalpore suscitato dalla tesi del complotto in esso contenuta fu il motivo della nascita di una commissione d'inchiesta incaricata di riesaminare quanto stabilito da quella immediatamente successiva al delitto».

Inizia a entrare nei particolari con foga, anche se un po' in maniera indisciplinata. Ha urgenza di denunciare. «Pur considerata la mole dei nuovi documenti esaminabili, è bene ricordare che i servizi segreti hanno distrutto due scatole di dati contenenti quanto riguardava due viaggi presidenziali, uno in Florida e uno a Chicago. Per non parlare di come il corpo di Kennedy avrebbe dovuto restare a Dallas e subire lì l’autopsia, mentre tutto fu militarizzato e quindi messo in mano a medici inesperti il cui referto cozzava addirittura con le deposizioni dei testimoni oculari. Molte cose furono appositamente nascoste». A questo punto Stone inizia a percorrere i viali di certezze in lui talmente consolidate da lasciare gli astanti un passo indietro. Prosegue, infatti, riassumendo in poche pennellate interi trattati di balistica sul caso.

Poi riallaccia la platea definendo «preoccupante che nessuno al governo si sia interessato. Hanno paura dei giornalisti, perché in America passi in un attimo per essere pazzo. Triste ammetterlo ma i Media americani o sono pigri o, come credo in questo caso, complici».

Entrando nel merito del suo ultimo lavoro, mette in chiaro che «sono quattro ore in cui viene esplorata la motivazione per cui Kennedy è stato ucciso, vale a dire il suo essere un guerriero della pace. Emerge un quadro completo e che gli storici abbiano mistificato cosa fece il suo successore: Johnson, in realtà, non continuò quanto iniziato da John. Non sfidò come lui le agenzie di intelligence o i militari».

A chi gli domanda in che modo il mondo sarebbe stato diverso se Kennedy non fosse fatto uscire di scena, Oliver Stone risponde sicuro che con quell’uomo siano state uccise le grandi speranze. «Oggi si prende molto sul serio in America la preparazione della guerra; si spende tutto nello sviluppare una potenza militare anziché investire in sanità, istruzione e diritti civili. Pare impossibile ridurre il bilancio per la difesa, che invece aumenta tutti gli anni. Se ci provi, ti trovi di fronte un muro di gomma. Si identifica il successo politico con la capacità di battere i nemici e, a questo proposito, il problema vero è l’inflazione della minaccia: nelle dichiarazioni sulla sicurezza nazionale si parla sempre di doversi difendere da una minaccia di volta in volta diversa. Non ne usciremo mai; dobbiamo cambiare mentalità e smetterla di venir imbeccati su supposti nemici dai Media».

Circa il declino dell’America, ha le idee se possibile ancora più chiare. «Gli Usa avranno difficoltà a mantenere la propria posizione perché mancano le risorse: esistono 800 basi all’estero che costano un’enormità, poi ci sono le agenzie di intelligence interne e così via».

Parlando del momento attuale, Oliver Stone sembra fare un augurio prima di tutto a se stesso. «Speriamo che l'attuale presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, cattolico e irlandese, riapra finalmente l'inchiesta Kennedy. Del resto io credo che molte persone abbiano detto cose importanti che non sono state rivelate». Poi, il colpo di teatro finale: «Robert Kennedy è stato assassinato perché avrebbe riaperto le indagini sulla morte del fratello» e rilancia, preda di una pressione interiore, «Jackie si rifiutava di togliere gli abiti insanguinati perché voleva la vedessero i responsabili, telefonò alla Cia e chiese se erano stati loro a farlo. Era in atto una guerra civile, Kennedy non aveva il controllo della Cia e i militari lo odiavano».

Insomma, battagliero come non mai, Stone ha espresso convinzioni politicizzate e non è certo la prima volta. Quel che colpisce è la tensione, vitale e quasi febbrile, con cui ancora ha ancora interesse a farlo. I contenuti di quanto da lui asserito potranno trovare disamina vera nelle quattro ore di durata del suo ultimo lavoro, ma in un incontro come quello con la stampa lo scetticismo è stato palpabile: quando il passo tra ardore entusiasta e cieca convinzione è breve, di questi tempi è spesso falso.

Resta la sensazione, di fronte a un maestro della settima arte di questo calibro, figura al contempo malmostosa e appassionata, che siano in pochissimi a vantare medaglie su un campo particolare come quello del cinema al servizio del proprio pensiero.

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