Le tasse che ti inseguono dappertutto, il dirigismo e lo statalismo di una cultura governativa che sta al liberalismo come Fidel Castro alle libere elezioni, la spesa pubblica elefantiaca, e poi gli imprenditori della Crisi che si suicidano, il terremoto che ci si mette di mezzo in quella che è considerata la «Brianza d’Emilia» e - dopo il terremoto - perfino quel panzer sindacalista della Camusso col suo dito puntato sempre e comunque contro supposti padroni e padroncini. Insomma, non è una stagione di quelle rosee per chi fa impresa in Italia. Soprattutto per chi ne fa di piccola e media. Eppure, quando i tempi si fanno duri e il capitalismo (nella sua deriva finanziaria e speculativa dal profilo impalpabile) sembrano averti tradito, il pensiero corre a capi d’impresa visionari e sognatori, i «capitani coraggiosi» di un imprenditoria che costruiva sui fatti, sulle cose solide, sui prodotti. Un pizzico di utopia e di mito dell’età dell’Età dell’Oro, come no. Ma, anche, un bel po’ di verità. E se ci sono storie da raccontare, non sia mai che il cinema e la fiction si tirino indietro.
Difatti, dall’altra parte dell’oceano sono ormai partiti progetti di biopic su Steve Jobs, guru della Apple, profeta dell’informatica e della rivoluzione di Silicon Valley, recentemente scomparso e idolatrato dalla gente come il «capitalista buono», colui che aveva saputo produrre qualcosa di realmente utile per il «popolo». Un Mozart dell’imprenditoria che, questo il mantra da una parte all’altra del pianeta, «ce ne fossero ancora». Un film, sceneggiato da Aaron Sorkin e ispirato alla biografia bestseller di Walter Isaacson, si intitolerà Steve Jobs e verrà prodotto dalla Sony Pictures.
Un altro film, indipendente, avrà come titolo Jobs: Get Inspired, e sarà interpretato da Ashton Kutcher (il giovane adone con mascella d’ordinanza recentemente separatosi da un’inconsolabile Demi Moore). E da questa parte del mondo, invece, che succede? Le storie da raccontare ci sarebbero anche qui. Ad esempio, quella del pioniere dell’industria torinese Adriano Olivetti, del quale la Rai intende realizzare una fiction, interpretata dal carismatico Luca Zingaretti. Dopo aver dato volto all’immaginario Commissario Montalbano e al reale e compianto giudice Paolo Borsellino, l’attore romano acciuffa un altro ruolo stimolante nei panni di colui che è stato definito con slancio un po’ semplicistico e pop come lo «Steve Jobs italiano». Prodotta da Casanova Multimedia di Luca Barbareschi (a lui si deve la battuta sullo Steve Jobs de’ noantri) e diretta da Michele Soavi, la miniserie su Adriano Olivetti è attesa su Raiuno, e racconterà di come il figlio del fondatore della Olivetti (Camillo), seppe vedere il futuro contribuendo a spingere l’Italia verso il progresso e lo sviluppo economico degli anni Sessanta. Chissà poi se si racconterà, nella fiction in questione, di quando Adriano Olivetti acquisì l’americana Underwood nel 1959 e, per qualche mese, la sua azienda sembrò credere nell’ipotesi informatica allora in fase embrionale. Dopo poco, e soprattutto dopo la scomparsa di Adriano, chi entrò nella stanza dei bottoni dell’azienda pensò bene (si fa per dire...) di chiudere la Divisione elettronica che proprio nel 1959 aveva realizzato l’Elea 9003, il primo computer al mondo.
«L'informatica - come disse l’amministratore delegato Fiat Vittorio Valletta - è una minaccia, un neo da estirpare». Amen. Di questo si racconta, ad esempio, ne Il miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate dalla scienza italiana negli anni Sessanta di Marco Pivato (Donzelli Editore), di recente uscita nelle librerie. Venendo ai giorni nostri, ci sarebbe anche da dire di quella volta in cui Carlo De Benedetti si comportò da vero fenomeno di cecità affaristica. E cioè, di quando un giorno di tanti anni fa (era il 1976) un giovane Steve Jobs propose alla Olivetti una collaborazione.
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