«Ora stravolgo il soul di Philadelphia»

Se si parla di sperimentazione nel jazz non si può prescindere dalla chitarra di Marc Ribot, avvezza a tutte le esperienze più estreme (come la teoria armolodica di Ornette Coleman) quanto all'elaborazione moderna della tradizione (dal blues al country). Ora Ribot cambia di nuovo strada, si dedica al soul di Philadelphia (quello degli O'Jays e degli MFSB) e con una superband (più la sezione archi dell'orchestra Sentieri Selvaggi) propone domani mattina alle 11 il suo unico concerto italiano al Manzoni di Milano per «Aperitivo in concerto».Come mai questo viaggio nel soul?«Vuole essere un tributo alla musica popolare nera, quella con quell'inconfondibile ritmo scandito da basso e batteria definita Philly Sound. Naturalmente non è un tributo tradizionale: è un incrocio tra il Philly Sound e Ornette Coleman».Del resto nelle sue radici c'è anche il soul.«Sì, ho suonato con Wilson Pickett e ho amato molto Sam & Dave. Il soul è nel Dna di tutti i musicisti jazz».Lei è uno dei pochi che pratica ancora il vero free jazz.«Con un altro gruppo amo sfondare sempre nuove barriere; più che free jazz lo definirei free funk o addirittura con i Caged Funk mi butto sulla contemporanea... Approfittando della lezione di maestri come John Coltrane, Ornette Coleman, Albert Ayler, unisco composizione e improvvisazione in un suono totalmente libero».Lei ha fatto davvero esperienze agli antipodi tra loro, spaziando dalle collaborazioni con Tom Waits a quelle con David Hidalgo dei Los Lobos...«Sono due geni nel loro genere. Ho amato sottolineare le atmosfere melanconiche delle ballate di Waits, così come amo confrontarmi con il neofolk di Hidalgo, e mi piace anche suonare il rock».Ha fatto anche la colonna sonora per i film muti di Chaplin.«Un progetto che vorrei portare dal vivo in Europa ma che è bloccato dal copyright».Ha nuovi progetti?«A proposito di colonne sonore, lavoro volentieri con Martin Scorsese e oggi sono impegnato a scrivere per la regista Jennifer Reese, che fa film astratti molto brevi e molto belli».

«To Sergio Leoni. With admiration». Foto firmata, con svista, da John Ford. Siamo nel «saloon stellato» di casa Leone dove il giovane e appassionato giornalista Diego Gabutti si muove come un bambino in un parco giochi. Nella stanza accanto, oltre al regista, c'è Robert De Niro. Parlano dell'ultimo film che stavano girando, C'era una volta in America che è anche il titolo omonimo del libro di Gabutti uscito in contemporanea con la pellicola nel 1984 per Rizzoli e appena ristampato da Milieu Edizioni. Frutto di ore e ore di conversazioni è un meraviglioso teatro della memoria spassoso e divertente come solo sa essere Sergio Leone, grandioso nelle sue messe in scena proprio come nei suoi ricordi. Su tutto il racconto dello stunt-man all'amatriciana di Cinecittà chiamato Er Faciolo schiantatosi, ormai anziano e incriccato, su un set della Hollywood sul Tevere dopo un salto di una ventina di metri perché aveva mancato i materassi. «Sto stronzo s'è rotto» dissero con romanesco disincanto due comparse.E spesso il giornalista si chiede dove sia il limite tra finzione e realtà in un uomo che non fa altro che immaginare film. D'altro canto Leone è nato dentro al cinema, letteralmente, la madre era un'attrice del muto («In arte Bice Valerian interpretò nel 1909 una specie di western italiano, ho una sua foto vestita da pellerossa a cavallo») e il padre, Vincenzo Leone, un regista che con il nome di Roberto Roberti aveva diretto quasi tutti i film di Francesca Bertini. «Sono nato nel 1929 a Roma e avrò avuto dodici anni quando l'ho seguito nel mio primo set. Da bambino ero convinto che il cinema l'avesse inventato lui» ricorda Leone che da quel giorno non lasciò più Cinecittà. Eccolo aiuto di Carmine Gallone («marziale, severissimo, iroso, il Cecil B. De Mille del Prenestino»), di Mario Camerini («uno dei veri maestri del nostro cinema che soltanto la peggior lagna critica poteva considerare un regista di regime»), di Vittorio De Sica («Uno dei pretini di Ladri di biciclette ero io, imparai più da lui in poche settimane che successivamente dai grandi registi americani»). Poi Fellini con Il bidone con Broderick Crawford «grazie a cui capii come i caratteristi del cinema americano potevano essere trasformati in protagonisti di prima grandezza». Arrivano da qui, per la «trilogia del dollaro», attori come Clint Eastwood che «costava poco, non lo avevo mai sentito nominare ma tanto il vero personaggio di Per un pugno di dollari era il cigarillo, mica Clint, attore con due sole espressioni: una col cappello e una senza», come Lee Van Cleef e poi Jason Robards che «barava a poker, non so quanti soldi abbia rubato a Charles Bronson», fino Eli Wallach e a due grandi attori come Henry Fonda «una persona veramente gelida» e Robert De Niro con cui immaginava una versione newyorchese di Filumena Marturano. Ma, prima di morire nel 1989, il regista a cui non proponevano altro che western («Un genere funziona? Allora i produttori con mira infallibile, l'abbatteranno a cannonate di provata imbecillità»), s'era invaghito anche di Falangi dell'Ordine Nero fumetto di Bilal e Christin, della Condizione umana di Malraux e ragionava d'una Monaca di Monza con Meryl Streep. Perché, come dice giustamente Gabutti, Leone non ha mai girato lo stesso film. A partire dall'esordio con Il colosso di Rodi, non molto amato, appena finite le riprese già non ne poteva più di pepli, daghe e schiave: «Nessuno mi è mai stato antipatico come l'eroe greco in gonnellino. Non sembra soltanto un cretino, no, è proprio un cretino». Subito dopo la svolta di Per un pugno di dollari firmato come Bob Robertson «cioè Roberto figlio di Roberto, un omaggio a mio padre». Un grandissimo successo mentre «la criticuzza pontificava tirando in ballo fenomeni di costume e regressioni di massa». Accanto a Eastwood c'era Gian Maria Volonté «in quegli anni molto sbilanciato a destra. Nero come l'anima di un bugiardo. Così non rimasi molto stupito quando me lo ritrovai maoista dopo il 1968». Ma la politica entra a stento nel vocabolario del regista che, ci svela Gabutti, aveva nella libreria opere di Bakunin (Coburn in Giù la testa ne getta una nel fango e qualche anno «Lotta continua» userà per un suo titolo la celebre battuta del film «Giù la testa, coglione») e di Céline (avrebbe voluto trarre un film da Viaggio al termine della notte). Leone era soprattutto affascinato dalle idee mitiche dell'America, «forti, esemplarmente deluse, con l'individuo prima di tutto. E poi l'orizzonte aperto, l'Eldorado».

Ecco la solennità definitiva di C'era una volta nel West venuta fuori dalle discussioni di sceneggiatura con Bertolucci e Argento: «Eravamo coscienti di danzare l'ultimo balletto di morte del vecchio west, di salutare per sempre la gente della frontiera. Una terra di nessuno dove non si è ancora grandi e non si è più bambini». C'era una volta Sergio Leone.

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