Al massimo, le dicono di attenersi ai colori primari per motivi di budget. Per il resto Milena Canonero, quattro volte miglior costumista agli Oscar, ha carta bianca dalle produzioni. Basta che modifichi un abito di scena, o scovi uno strano ventaglio in un negozietto di anticaglie di Los Angeles e il film decolla grazie al look vibrante che è il suo marchio di fabbrica. Unica italiana in concorso (solo Fellini ha vinto un Oscar più di lei), la first lady dei costumisti internazionali s'è portata a casa la quarta statuetta d'oro, per gli abiti del film di Wes Anderson The Grand Budapest Hotel , ispirati al mondo di Gustav Klimt. Brava a sorvegliare la comunicazione (agisce su scala globale, dove le identità non contano), della sua italianità spiega: «È un bagaglio culturale, di sensibilità artistica speciale, ma non siamo superiori agli altri, così come non siamo nemmeno inferiori agli altri in quanto italiani e di questo dovremmo essere coscienti tutti». Suona politicamente corretto, ma è innegabile che l'amore per le cose ben fatte, e ispirate a un approccio artigianale, scorra nelle vene degli italiani come lei. Una torinese classe 1946, che ha lavorato sodo per arrivare nell'empireo di Hollywood amante delle nostre maestranze.
Dai maghi della luce Vittorio Storaro e Carlo Di Palma ai production designers Gianni Quaranta e Dante Ferretti, alle colleghe di Milena, Gabriella Pescucci e Franca Squarciapino, non si contano i talenti made in Italy che fanno grande la fabbrica dei sogni americana. Milena però, tra i collaboratori tecnici della cineindustria Usa, è quella che ha infilato più perle nella collana d'una carriera formidabile. Da quando, nei Sessanta, dopo aver studiato arte del costume a Genova, si trasferisce nella «swinging London» col fidanzato di allora, il giornalista Riccardo Aragno. E comincia a disegnare abiti per boutiques di amici.
Lavorando nel settore commerciale, incontra il regista Hugh Hudson, per il quale disegna i costumi d'uno spot (poi sarebbero arrivati i di lui Momenti di gloria , Oscar n.2), e il cameramen di Stanley Kubrick. Invitata sul set di 2001. Odissea nello spazio , Milena si fece avanti col regista, che la ingaggiò per Arancia meccanica . «Quando lavori per Kubrick, hai solo un boss: lui», le fu chiaro. Arrivano così gli stivaletti neri di Malcolm McDowell, i «bovver-boats» da gang di strada, dove «bovver» sta per «brother», fratello. E a Londra non c'era maschio trendy che non portasse i pantaloni bianchi col sospensorio, ideati da Milena. Mentre le ragazze si coloravano i capelli come nel film. «È stata l'esperienza più eccitante della mia vita: dagli studi al grande cinema», racconta lei che, quattro anni dopo, è sul set di un altro film di Kubrick, Barry Lyndon (Oscar n.1). Stavolta si tratta del '700 e con la collega svedese Ulla-Britt Soderlund, la dama dei pizzi allestisce un suo laboratorio, dove quaranta persone lavorano giorno e notte per cucire uniformi e incollare parrucche. Perfezionista alla Kubrick, che la rivolle per Shining . «Non importa quanto conosci un periodo storico. L'importante è entrarci dentro», spiega Milena, che nel suo palmarès conta La mia Africa , Cotton Club , Dick Tracy e Il Padrino.Parte III : dalle crinoline al golfino. Soltanto lei, sposata con l'attore Marshall Bell, poteva infilare le sneakers nel guardaroba d'una regina: Oscar n.3 per M arie Antoinette di Sofia Coppola. Che, per ispirarla, le diede una scatola di macarons di Ladurée dai colori pastello.
«Non sei un designer di moda, libero di disegnare la sua collezione», nota dei registi invadenti. Wes Anderson, però, l'ha lasciata libera: «Grazie ai suoi stimoli, ho potuto esprimere il mio apporto creativo», ha scandito, sollevando la statuetta.
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