Con Pérez-Reverte rivivono le spie parigine della guerra di Spagna

In "Sabotaggio" lo scrittore racconta la lotta sotterranea tra i filo franchisti e i repubblicani

Con Pérez-Reverte rivivono le spie parigine della guerra di Spagna

Nella Parigi che nel 1937 ospita l'Esposizione universale, c'è molto interesse per gli imponenti padiglioni con cui l'Unione Sovietica e la Germania celebrano rispettivamente il comunismo e il nazionalsocialismo.

In Francia ha appena vinto il Fronte popolare, il suo cuore politico batte a sinistra, ma c'è una destra elettorale e intellettuale per niente minoritaria e di cui nel governare bisogna tenere conto. L'anno prima è anche scoppiata in Spagna la guerra civile e da Madrid le autorità repubblicane continuano a premere affinché dalle parole si passi ai fatti, e insomma la Francia mandi armi e soldati e non i soliti intellettuali per i quali il fronte è il ristorante o la cantina di questo o quell'albergo. Quel conflitto è il primo esempio di uno scontro dove l'ideologia ha preso apparentemente il sopravvento rispetto a ogni altra distinzione e fascismo e comunismo sono i due campi contrapposti: che possa esserci un'altra Spagna che dell'uno e dell'altro farebbe volentieri a meno, non interessa a nessuno; che si tratti di una nazione dove l'anarchismo è il vero carattere nazionale, nemmeno.

Se però si comincia a scavare sotto quella semplice, troppo semplice contrapposizione, si capisce che scegliere fra due totalitarismi non è un qualcosa di cui vantarsi, in specie se a farlo dovrebbero essere delle democrazie liberali e parlamentari, quali sono l'Inghilterra e la Francia, le due potenze che ancora si illudono di essere egemoni nel Vecchio continente. Alla prima, l'idea che Mosca possa affacciarsi sull'Atlantico e sul Mediterraneo non piace, e scommette che un domani il franchismo uscito vincitore si chiuderà in una dittatura casalinga e neutralista. Quanto alla seconda, che alla prima è legata da trattati diplomatici, l'idea di ritrovarsi da sola a togliere le castagne dal fuoco altrui, fa paura e induce a più miti consigli. Se si prosegue in quel lavoro di scavo, si vedrà inoltre che gli stessi totalitarismi in questione stanno attenti a non bruciarsi. Ufficialmente, Germania e Italia non vi prendono parte e indossano la foglia di fico del volontariato: non sono le loro forze armate a combattere, ma singoli crociati della fede contro la barbarie rossa che viene da oriente. E anche l'Urss fa lo stesso, brigate internazionali della libertà contro l'oscurantismo clerical-fascista-capitalista che viene da occidente. Non le interessa vincere, quanto tenere acceso un focolaio bellico europeo, incamerare, come ha già fatto, l'oro della Repubblica e regolare sanguinosamente, come sta facendo, i conti con socialisti e anarchici spagnoli ancora convinti che quella sia la loro guerra civile. È anche per questo che a Mosca la parola d'ordine non è la vittoria del marxismo, o del comunismo, o dello stalinismo, ma la assai più generica e meno compromettente battaglia per la libertà ed è anche per questo che per combatterla ha più bisogno di intellettuali che di soldati. Non, naturalmente, gli intellettuali di casa propria: quelli li ha schiacciati nell'obbedienza servile e paurosa, o li ha rinchiusi a morire nei gulag o li ha sbrigativamente eliminati con un colpo di pistola alla nuca. Sono gli intellettuali d'occidente quelli da reclutare ed è qui che Parigi torna in primo piano, perché in quell'Europa degli anni Trenta la Francia è la cultura, l'engagement, i «compagni di strada» o, per dirla con il più brutale gergo stalinista, «gli utili idioti».

Così, in quel 1937 dell'Esposizione universale, vicino ai due padiglioni tedesco e sovietico dove torri di cemento con aquile dorate con tanto di svastica fra gli artigli fronteggiano sculture di marmo di trenta metri con operai armati di falce e martello, c'è anche il più piccolo padiglione della Repubblica spagnola dove la parete principale è occupata dal Guernica di Picasso, con la sua tormentata geometria di grigi e di neri, incomprensibile per il campesino dell'Estremadura, ma che strappa gemiti di ammirazione all'intellighentia repubblicana che ha commissionato il dipinto, ciliegina finale su una guerra civile trasformata in guerra di parole.

In questa Parigi dove si va e si torna dal fronte, meglio, dalla frontiera, come se si andasse a una gita scolastica, dove si raccolgono fondi che non sempre raggiungono i diretti interessati e si partecipa a festini proletari che spesso si trasformano in orge interclassiste, dove dietro un convinto sostenitore della libertà si nasconde un altrettanto convinto profittatore che lavora in proprio, dove si sparano parole come pallottole e mille comitati di sostegno antifascista fanno orecchie da mercante alle notizie dei processi della Mosca stalinista o della mattanza anarco-socialista che nel contempo ripulisce in Spagna il cosiddetto fronte progressista, Arturo Pérez-Reverte ambienta il suo Sabotaggio (Rizzoli, traduzione di Bruno Arpaia, 392 pagine, 20 euro), terzo episodio di una serie che ha in Lorenzo Falcó il suo dominus incontrastato. Falcó è, per dirla con una espressione di Graham Greene, «una pistola in vendita», un sicario a pagamento che lavora per i franchisti semplicemente perché lo hanno ingaggiato per primi e a loro resta fedele non in nome della causa, ma in nome di sé stesso: non tradirà, a meno che non venga tradito. Con la consueta abilità, Reverte gli costruisce intorno una cornice d'epoca piena di riferimenti, citazioni, descrizioni: abiti, profumi, canzoni, pellicole cinematografiche, atmosfereQui e là strizza divertito l'occhio al lettore: dietro Léo Bayard, lo scrittore-aviatore narciso e però coraggioso che sostiene il movimento repubblicano spagnolo, c'è l'ombra di André Malraux, la bella e gelida fotografa Eddie Mayo rimanda a Lee Miller, il tronfio Gatewood a cui Falcó darà una ripassata pugilistica nelle toilettes di un locale notturno, è ricalcato su Ernest Hemingway. Oltre a Marlene Dietrich, di cui Pérez-Reverte dev'essere un fan, solo Picasso è il vero Picasso, furbo e sensuale, conscio della propria grandezza e abile monetizzatore della stessa: «Un artista enorme, il più grande che conosco, e sono parecchi. Ma è anche un baro molto sveglio. E un cinico. La metà dei motivi di quel quadro li aveva già pensati per altre opere. Lo chiamerà Guernica come avrebbe potuto chiamarlo Terremoto a Lisbona».

In questo alternarsi di verità e finzione, Reverte fa muovere il suo Falcó come in una partita a scacchi dove nessuno è la pedina che dovrebbe essere, che poi è spesso la realtà di quegli anni tragici. C'è chi spia per Mosca, con la paura che sia proprio Mosca a fargli la pelle, c'è chi spia per l'Inghilterra, con l'ipocrisia di chi sacrifica gli amici, ma si offende se a quello stesso sacrifico stanno pensando i suoi nemici, c'è chi spia per soldi, ma fa finta di farlo per nobili motivi «Gli uomini nascono, camminano, lottano e si spengono. Nel frattempo, era formidabile continuare a giocare giochi mai dimenticati, vivere in margini fabbricati da sé stessi; naturalmente, a patto che si fosse disposti a pagare quando fosse arrivato il conto. Che alla fine arrivava, o sarebbe arrivato».

Il mondo di Falcó è un mondo fatto di alberghi di lusso e pensioni sordide, di frontiere incerte attraversate all'alba e di passaporti falsi, di bicchieri di vino in un

bordello da quattro soldi e di completi su misura di Savile Row. È un mondo all'insegna dell'ambiguità, dove è il grigio la tonalità dominante. Il colore viene dopo, quando di quel mondo si comincia a scrivere la Storia.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica