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Quel padre-Giuda testimonia che siamo tutti traditori

Quel padre-Giuda testimonia che siamo tutti traditori

Sui padri, nell'ultimo secolo e in particolare negli ultimi cinquant'anni, è stato detto di tutto. Autocrati, patriarchi, fuggitivi, ambigui, dongiovanni, impotenti e tanto altro ancora. Un'immagine mancava finora, almeno nelle mie incursioni tra i guai attribuiti ai padri: quella di Giuda. Ora anche questo vuoto è riempito, con un libro insolito: Giuda mio padre, di Miriam D'Ambrosio (Luigi Pellegrini editore, pagg. 104, euro 10), dove il protagonista-narratore è il figlio dell'apostolo che ha cambiato la storia del mondo, consegnando Gesù al Sinedrio.

Siamo qui lontani (era anche ora) dalla produzione sociologico-psicoanalitica inaugurata dalla Rivolta contro il padre, di Gerard Mendel, pubblicato da Vallecchi nel 1968, uno dei testi base per capire qualcosa di quegli anni e i seguenti. O da Verso una società senza padre (Alexander Mitscherlich), che già nel 1963 aveva annunciato i rischi che sarebbero seguiti all'indebolimento e all'assenza della figura paterna. Il centro della veloce narrazione della D'Ambrosio non è l'analisi psico-sociologica ma il bisogno di ricostruire i sentimenti, gli affetti, le identità. Un po' come oggi, i drammi sono tutti già accaduti. Il figlio di Giuda, affidato in fasce a Maria, che lo poi cresce assieme agli apostoli nella piccola comunità di Efeso, da grande cerca di capire chi veramente era suo padre. Anche il lettore, preso dal filo affettivo della narratrice viene così coinvolto nella riflessione sul padre-Giuda. Su quale sia stato (se c'è stato) l'aspetto-Giuda, del traditore, nella generazione dei padri e nel proprio padre. E se Giuda ci sia, e dove, in sé in quanto padri, ancora oggi.

Non per chissà quale malvagità personale, ma perché non è poi facilissimo non essere mai Giuda, non tradire mai. Tradire Gesù l'amico, e se stessi, o il figlio che ti è affidato e che devi (dovresti) aiutare a crescere. Domande impegnative, che il libro non fa, ma che proprio per questo il racconto femminile della D'Ambrosio può aiutare a porsi. Perché, certo, Giuda è l'archetipo del traditore, colui che manca al proprio compito di apostolo, scelto dal Signore. E così facendo lo compie, pagando il prezzo più alto.

Ma poi perché tradisce Giuda? I 30 denari, che poi butta via disperato, non sono certo il fine. Sono (direbbe l'analista) il sintomo, il segnale di dove stia il problema, una scusa per liberarsi di Gesù, maestro difficile e impegnativo, e di se stesso.

Il perché di quel sintomo resta un Mistero. Ma la sequenza narrativa dei Vangeli è eloquente. Poco prima della Pasqua Gesù si ferma a Betania, a casa di Lazzaro e delle sue sorelle, Marta e Maria. Maria prende un vaso di nardo, un olio profumato e molto prezioso e lo versa sui piedi del Maestro. Giuda allora, il custode della borsa degli apostoli, protesta e chiede perché non sia stato invece venduto per trecento denari da dare ai poveri. Ma Gesù la loda, perché: «I poveri li avrete sempre con voi, ma non sempre avrete me. Lei ha preparato il mio corpo in vista della sepoltura». È allora che Giuda, raccontano allora Matteo e Marco, va dai capi dei sacerdoti per accordarsi su quando consegnare Gesù, e sul compenso. È dopo questo episodio che comincia la Passione di Cristo.

Per Giuda, l'amministratore che va sul concreto, ogni cosa preziosa va tradotta in denaro, da dare ai poveri. Per Gesù invece va versata sul suo corpo, in vista della morte e risurrezione. Per un amministratore zelota, severo (e forse anche ladro dice Giovanni evangelista, come spesso accade che i moralisti siano), ciò è scandaloso. Sceglie la morte e corre dai farisei. Questo, forse, è il padre-Giuda, il padre che tradisce. Moralista, avido, incapace di spargere energie gratuitamente sul corpo di Cristo perché deve esserci un «ritorno» economico/morale. Mentre il figlio, per crescere, ha un enorme bisogno di spargimento di energie, gratuite.

Anche esagerate, nel modo romano della «sparsio», al ritorno del vincitore.

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