Il passato ingombrante, a Fiume, non è solo l'Impresa di Gabriele d'Annunzio iniziata il 12 settembre 1919. Il giorno dopo l'incidente diplomatico tra Croazia e Italia, scatenato dalle celebrazioni italiane del centenario e dalle (piccole) provocazioni di neofascisti assortiti e vari, andiamo a confrontarci con un'altra grana e un altro momento della Storia. In città si discute: è giusto trasformare in museo il Galeb, il panfilo del maresciallo Tito oggi alla fonda nel porto? Questioni economiche a parte, non rischia di essere un omaggio a un comunista che ha inflitto profondissime sofferenze agli italiani, realizzando con la violenza una vera e propria pulizia etnica? Le foibe, l'esodo... Conosciamo (troppo poco, forse) le tragiche vicende degli italiani di quelle terre eternamente contese. La reazione alle malefatte del fascismo, con la quale si crede di poter giustificare tutto, c'entra poco. Come si diceva fu pulizia etnica in luoghi dove gli italiani vivevano da sempre. Purtroppo i partigiani jugoslavi trovarono sponda nei partigiani comunisti italiani, disposti a tradire la patria in nome della dittatura dei soviet e della rivoluzione bolscevica.
Ma torniamo a Fiume. Entrati nel porto piccolo, quello utilizzato nel 1919-1920 dai legionari, si attraversa il ponte, proprio quello che i legionari hanno fatto saltare in aria, e si arriva davanti a una imbarcazione tanto imponente quanto arrugginita. Avete già capito: è il Galeb (Gabbiano). Il maresciallo Tito se ne servì per la prima volta nel 1953, per recarsi in visita ufficiale a Londra. Il Galeb ne aveva già viste di tutti i colori. Era uscito dalle officine di Genova. Il varo è del 1938. Il nome è RAMB III. Servirà come bananiera sulla rotta con le colonie africane. Nel 1941 diventa una nave militare, nel 1943 deposita mine sul fondo del golfo del Carnaro, nel 1944 è affondato nel porto di Fiume dai bombardamenti inglesi, nel 1948 viene riportato in superficie. Nel 1953 Tito ha un'idea. Il Galeb sarà la sua residenza galleggiante, una sfarzosa nave di rappresentanza. Ospiterà, tra gli altri, Hailé Selassié, Nasser, Brezhnev, Gheddafi, Indira Ghandi. L'ultimo viaggio di Stato risale al 1979. Dopo la morte del maresciallo, si trasforma in nave scuola. Quando crolla la Jugoslavia, inizia a passare di mano, fino all'attuale proprietario: la città di Fiume.
Saliamo a bordo, dunque. Sulla nave, per legge, deve esserci l'equipaggio, che infatti ci accoglie con estrema gentilezza. Sono due persone. Il capitano e il custode, che dorme sul Galeb tutte le notti. «Questa nave è enorme». «Misura 117 metri di lunghezza, pesa migliaia di tonnellate, ci sono otto ponti, è spinta da due motori Fiat. L'equipaggio contava 193 marinai. Poteva trasportarne circa un migliaio». Il golfo del Carnaro, visto dal ponte più alto, è una meraviglia. Davanti a noi c'è l'isola di Cherso, alla nostra sinistra c'è l'isola di Veglia. Sono le isole dove gli uscocchi, i pirati dannunziani, si nascondevano per tendere imboscate o realizzare teatrali colpi di mano sul mare. L'acqua è quasi immobile, sembra un lago. Ad esempio, il lago di Garda, non a caso scelto da Gabriele d'Annunzio per erigere la sua casa-opera d'arte.
L'interno è visitabile solo in parte. L'epoca in cui il Galeb era il massimo del lusso è lontana. Tutto è divorato dalla salsedine. Sui ponti si intravede appena il legno originario, coperto da uno strato di cemento. Non ci sono segni visibili del comunismo, in compenso nella sala di comando è tutto italiano, dai telefoni alla strumentazione. Il capitano racconta: «L'interno è quasi vuoto: i mobili sono in fase di restauro. Parte dell'arredamento però è al museo civico». Ci siamo stati, ci sono due salotti molto anni Cinquanta, le targhe commemorative degli incontri di Stato e altre curiosità.
Il Galeb disponeva di un salone ove trascorrere le serate in compagnia. Accanto c'era una sala da ballo che, grazie a uno schermo a tendina, poteva essere trasformata in cinema. Le camere per gli ospiti di riguardo erano quattro ma certo non mancava lo spazio per eventuali imbucati. Le camere erano disposte lungo un corridoio che conduce all'appartamento privato di Tito. Una vera e propria suite, con vetrate sul ponte, spalancate sul mare. Un salotto al centro. A sinistra, la stanza da letto e il bagno di Tito. A destra, la stanza da letto e il bagno della moglie di Tito. Non amavano dormire assieme. Al piano superiore, c'erano le camere degli ufficiali. Quella più ampia era destinata al Commissario politico. «Ma come, e il Capitano?». «Era molto meno importante del Commissario». «Che faceva il Commissario?». Risata amara del capitano, che racconta un'altra parte della storia del Galeb: per un breve periodo è stato quartier generale dei nazisti. I serbi invece hanno pensato bene di portarsi via una parte dell'arredo e di gettarne in mare un'altra parte.
Forse vi state chiedendo perché Tito avesse scelto una nave come «ufficio». La risposta tocca agli storici. Ed è questa. Tito non poteva sfoggiare particolari competenze in materia di comunismo, anche se era stato cofondatore del partito comunista Jugoslavo nel 1920. Era un uomo di potere, non aveva le opere (vere) di Lenin e quelle discutibili ma incensate di Stalin. Per questo, utilizzava il lusso per legittimare (si fa per dire) la sua autorità. Tito viveva come gli imperatori asburgici ma era molto meno rispettoso della libertà concessa dai suoi predecessori. Naturalmente, alcuni nostalgici non sono d'accordo con questa interpretazione che comunque ha buone pezze di appoggio. Tito requisì residenze reali, ville, castelli, tenute di caccia. Fu munifico con i suoi fedelissimi, invitati spesso a feste, partite di biliardo, proiezioni di film, ma soprattutto a caccia. Scrive Joze Pirjevec in Tito e i suoi compagni (Einaudi): «Sebbene prima della guerra nessuno dei leader fosse stato cacciatore, nella nuova società la caccia ebbe una particolare valenza simbolica: testimoniava lo status raggiunto. Le battute di caccia divennero un evento con il quale i compagni affermavano la propria appartenenza all'élite dominante. Con il tempo si trasformò in un rituale, da osservare scrupolosamente. Si sapeva nel dettaglio che cosa i singoli membri della nomenclatura fossero autorizzati a cacciare: chi faceva parte del Consiglio della federazione poteva cacciare un numero determinato di animali, il segretario federale qualche animale in più, il membro della presidenza di più ancora. Per Tito non c'erano limiti». La questione prese una piega vagamente psicopatica: «Durante una battuta di caccia nei Carpazi il dittatore romeno Nicolae Ceausescu abbatté un orso più grande del suo, reagì furiosamente: Io non farei mai una cosa simile a un mio ospite». Il Galeb per i ricevimenti di Tito veniva rifornito di ogni sorta di prelibatezze di produzione nazionale (a chilometro zero?). Comunque Tito aveva anche un aereo gentilmente offerto dai sovietici, numerose automobili ricevute in dono da Stalin, da Chruscev e dalla Slovenia (una Rolls-Royce). Possedeva anche una Mercedes blindata «ereditata» da Ante Pavelic, una barca a vela del re Alessandro, un'enorme collezione di statue, quadri, tappeti, stoffe. Il viso affilato del partigiano, nel dopoguerra divenne paffuto e fintamente bonario. Era per questo amato? Scrisse il diplomatico croato Bogdan Radica, ben presto costretto a fuggire in Occidente: «A Belgrado lo chiamano Göring, a Zagabria invece Titler».
La visita è finita.
Resta da fare un brindisi con il Sangue morlacco, il liquore locale adottato dai legionari e soprattutto dal Comandante in persona, Gabriele d'Annunzio. Il centenario è passato, le polemiche proseguiranno. Noi diciamo «Viva l'amore, alalà».
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