Cosa può perdere di prezioso e vitale un piccolo villaggio di pescatori? Ovviamente il mare. E le cronache catastrofiste di questi anni hanno suscitato questa domanda al regista tagiko Bakhtiar Khudoijnazarov (conosciuto anche dal pubblico italiano per il suo Luna Papa del 1999). L'autore si è infatti ispirato al drammatico e inesorabile ritiro delle acque del lago di Aral (al confine tra Uzbekistan e Kazakistan) per comporre uno struggente racconto sul sogno, sulla memoria e sull'amore intitolato Aspettando il mare, che ieri sera ha aperto ufficialmente la settima edizione della Festa internazionale del cinema di Roma. Il cuore della riflessione creativa però non è il mutamento dell'identikit sociale ed economico di una ragione sconvolta da un mutamento climatico, bensì «l'ecologia dell'anima», come la chiama lo stesso regista.
Khudoijnazarov qui confeziona una parabola malinconica incentrata sulla figura del capitano Marat (Egor Beroev). Questi ha perso, durante una tempesta, la moglie, l'equipaggio e la nave. Per non dire della perdita più importante: il mare. Eppure, svuotato di ogni futuro, Marat si mette alla ricerca della nave e del mare percorrendo a piedi e sotto un clima torrido quel fondale trasformatosi in arido deserto. Per spiegare le suggestive immagini in cui, tutto solo, Marat trascina, una volta trovata, la carcassa della nave verso un mare solo sognato, Khudoijnazarov ricorda che «l'essere umano si può piegare ma non spezzare, essendo in grado di superare anche le prove più dure».
Come quella affrontata dalla troupe internazionale (sul set si parlavano ben diciotto lingue differenti), costretta a lavorare sotto un clima infernale in pieno deserto kazako con la pelle del viso costantemente schiaffeggiata da polvere e vento.
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