Più che attrice, un'apparizione. Più che personaggio, un'icona

Unica e irripetibile, segnò un'epoca. Fellini fu un genio a farla incontrare con l'eternità di Roma. E divenne l'essenza della bellezza cinematografica

Più che attrice, un'apparizione. Più che personaggio, un'icona

La natura allo stato brado, impudica perché innocente, la pura fisicità pagana, ciò che resta quando le illusioni sono cadute. Questo fu, nello splendore in bianco e nero della Dolce vita felliniana, Anita Ekberg. Un'apparizione, non un'attrice. Unica e quindi irripetibile.

Fateci caso: le icone cinematografiche degli anni Sessanta sono altre, e nel decennio dei Cinquanta in cui la ventenne Ekberg cominciò a imporsi, la sua era una bellezza-tipo da maggiorata hollywoodiana, più concupita dai produttori che dagli spettatori. Il genio di Fellini consisté nel farla cozzare con l'eternità di Roma, il marmo delle pietre contro il marmo di quei seni e di quelle lunghe gambe che abbagliavano e percorrevano la città dei Papi, scultura di carne che si stagliava orgogliosa a sfidare i monumenti, un volto truccato da divinità solare, un corpo inguainato in un abito talare o in un tubino nero pronto a svelarsi in una perdizione senza dannazione.

Il mito della Dolce vita ebbe nella Ekberg la sua divinità proprio perché la Ekberg era per il provincialismo felliniano e quindi italiano un'icona naturale da Hollywood sul Tevere, ovvero gli studios d'oltreoceano cullati dal ponentino, storditi dal vino dei Castelli, folgorati dalle rovine di una civiltà. Anita era già la «dolce vita » prima che Fellini la filmasse, era già al Rugantino, per il compleanno della contessina Olghina di Robilant prima che quel festino diventasse un'inquadratura cinematografica: e infatti Aichè Nanà improvvisò il suo spogliarello perché lei, Anitona, stava calamitando l'attenzione degli invitati ballando a piedi nudi il cha-cha-cha su un tavolo del ristorante. Aspettava, insomma, il regista che la filmasse come un'opera d'arte, simbolo e non personaggio, allegoria di una magica apparizione acquatica nel cuore della capitale, il bagno notturno di una ninfa felice.

Più di questo alla Ekberg non si poteva chiedere e lei stessa non avrebbe dovuto chiedere, la purezza dell'istante, quello immortalato dal Faust di Goethe: «E qua la mano./ Dovessi dire all'attimo:/ “Ma rimani! Tu sei così bello!”/ allora gettami in catene,/ allora accetterò la fine!/ Allora batta a morto la campana,/ allora, esaurito il tuo impegno,/ s'arresti l'orologio, cada giù la lancetta,/ per me finisca il tempo!».

Tutto il resto, la

carriera e la vecchiaia, la decadenza e i rimpianti, gli amori e l'indigenza, l'aver persino imparato a recitare quando non le serviva più, fanno parte della quotidianità degli esseri umani. Però lei quell'attimo lo aveva avuto.

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