Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza

Originalità e stranezza dilatate all'inverosimile in un film, vincitore del Leone d'Oro, che si colloca tra surrealismo, avanguardia e ironica presa in giro

Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza

Vincitore del Leone d'Oro all'ultimo Festival del Cinema di Venezia, arriva nelle sale "Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza" di Roy Andersson, opera che conclude la trilogia «sull'essere un essere umano» inaugurata da "Songs from the Second Floor" (2000) e proseguita con "You, the Living" (2007). Nonostante il titolo accattivante, è bene chiarire subito che non è un film per tutti, perché è talmente atipico, spossante e straniante che appare improponibile a un pubblico fuori dai circuiti festivalieri e non avvezzo a esperienze artistiche estreme. La pellicola ha una flemma esasperante e si gioca tutta a cavallo tra il registro grottesco e quello filosofico, il che la rende impegnativa e stimolante per alcuni, confusa, noiosa e scoraggiante per altri. Si compone di trentanove scene dalla ricerca estetica maniacale e colme di nonsense, ognuna delle quali è ritratta con un'unica, lunga inquadratura fissa e diventa quindi come un quadro sul cui sfondo immobile si muovono personaggi lenti e inespressivi. Si assiste a un quieto e paradossale teatrino di esseri umani alienati, a una fiera dell'assurdo fatta di situazioni che definire improbabili è un eufemismo: l'armata di Carlo XII che fa sosta in un pub dei giorni nostri per una birra, schiavi neri che finiscono in un girarrosto umano per il divertimento dei loro padroni, una scimmietta sottoposta a sperimentazione per scopi ignoti e così via.

A fare da filo conduttore tra alcune scene è il vagabondaggio di due stralunati e tristi venditori di gadget umoristici caduti in disgrazia. Collocare certe stravaganze in quella staticità pittorica e cimiteriale dà luogo a humour gelido e a qualche riflessione sull'inutile affanno di cui è ostaggio l'essere umano. Non è facile per lo spettatore acclimatarsi a tanta desolazione e placidità ma quello che, sulle prime, sembra angosciante, piano piano rivela una sfumatura comica inaspettata, nata ad esempio da alcuni elementi narrativi ricorrenti e da espressioni reiterate. Questi individui grotteschi, immersi in una fotografia monocromatica che rivela il loro grigiore esistenziale, si muovono con una tempistica perfetta che dona alla loro malinconia qualcosa di tristemente divertente. Un film di tale forgia si colloca tra surrealismo, avanguardia e presa in giro, inutile negarlo: nel trovarsi in una sala al buio, pressoché fermi, ad assistere a cento minuti di girato tanto insoliti e, alla lunga, stressanti, ci si è infatti resi interpreti inconsapevoli di un ulteriore quadro, il quarantesimo, che anziché sullo schermo è ambientato in un cinema, quello in cui siamo seduti.

Diventiamo perciò parte di una specie di installazione d'arte contemporanea che mette alla prova la nostra resistenza fisica e psichica. Se pensavate che la vostra visuale fosse quella dal ramo di cui al titolo, all'uscita converrà che vi guardiate attorno e magari vedrete un piccione sghignazzare.

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