Ernesto Rossi, che fu uomo d'Azione e giornalista sottile, finita la guerra, da antifascista, scrisse: «Non bisogna farsi illusioni. Il fascismo non era Mussolini e una piccola cricca di delinquenti. Era il popolo italiano». Giovannino Guareschi, tornato in Italia nell'agosto del '45 dopo due anni di prigionia, ci pensò un po', e poi divise gli italiani in tre categorie: quelli che pensano in un certo modo, quelli che la pensano in maniera opposta, e quelli che non pensano niente. Anche se in realtà (aggiunge, con un paradosso che vale più di un trattato di antropologia) «pure le prime due categorie risultano alla fine classificabili come gli italiani che non pensano affatto». Giuseppe Prezzolini, invece, divideva gli italiani in due: «I furbi e i fessi», e ditemi voi se non aveva capito tutto... (e a proposito dell'Italia del Ventennio, annotò lucidamente: «Fascisti e antifascisti hanno collaborato alla rovina dello Stato italiano e si sono dati una mano per distruggerlo: i fascisti dichiarando la guerra, gli antifascisti facendo vedere agli alleati che l'Italia era disunita e più vulnerabile. I fascisti consegnarono l'Italia alla Germania, gli antifascisti agli alleati. Tutti e due prepararono la schiavitù politica sotto lo straniero»). Tommaso Besozzi sulle pagine de L'Europeo di Arrigo Benedetti, in un'inchiesta del 1950 sull'uccisione del bandito Giuliano, riassunse la propensione tutta italiana per misteri&complotti in un incipit esemplare: «Di sicuro c'è solo che è morto». Longanesi, a dimostrazione che basta un titolo per dire tutto, nel '53, alla morte di Stalin, mentre i vertici del Pci piangono «la Guida, il Genio, il Maestro, l'Infaticabile Edificatore sul comunismo, il Grande Cuore Generoso» (così Luigi Longo), fa una copertina de Il Borghese con un'unica frase: «Non aderiamo al cordoglio per la morte di Stalin». Icastico. Ancora: Giorgio Bocca, su l'Espresso, qualche minuto prima dell'esplosione di Tangentopoli si chiedeva, occhio lungo e penna premonitrice: «È possibile non rubare in Italia?». Mentre la banda di Cuore, inserto satirico dell'Unità, ha fatto la miglior sociologia politica degli anni Novanta spiegando l'Italia agli italiani con copertine entrate nelle antologie, come il celebre «Scatta l'ora legale, panico tra i socialisti» o (venticinque anni prima di Comunisti col rolex) «Fanno i comunisti, e poi vanno in settimana bianca».
Domanda. Chi può capire la Storia, mentre ancora si «sta facendo» e si chiama cronaca, meglio dei giornalisti? Risposta: nessuno. I politici, parte in causa, ego-riferiti, mancanti del dono della sintesi, sono troppo in alto per vedere le cose del mondo nella reale prospettiva. Mentre i cittadini, esclusi dalla gestione del potere, egoisti, sempre lamentosi, sono troppo in basso per giudicare la situazione nel giusto contesto. Restano appunto i giornalisti: meno furbi dei politici e più disincantati della gente comune, bravissimi a cadere comunque in piedi, in interessato equilibrio tra destra e sinistra, perfettamente in mezzo tra l'alto degli arcana di governo e il basso delle miserie popolari. La posizione migliore.
Insomma, a qualcosa, forse, i giornalisti servono. Ad esempio a raccontare da un punto di vista pragmatico, chiaro e divertente l'Italia contemporanea, tra Storia e cronaca, al netto di sottili analisi politologiche, con innegabile fiuto e una certa, non inutile, cattiveria. Del resto, è noto: alcune elezioni, più che dai proclami o i programmi dei leader, sono state condizionate, nel bene o nel male - ad esempio - da una vignetta ben riuscita, come quelle di Guareschi, da un editoriale ad hoc (l'endorsement a Prodi di Paolo Mieli nelle politiche 2006), o da una buona battuta, che non è solo passata alla storia, ma l'ha fatta: quella di Indro Montanelli, il quale, alla vigilia delle elezioni 1976, dinanzi alla crescita del Partito comunista, sbottò: «Turiamoci il naso e votiamo Dc». I giornalisti sanno essere perfidi, sono spesso dei simpatici cialtroni, quasi sempre superficiali - nel migliore dei casi per pigrizia, nel peggiore per convenienza - e inclini alla faziosità. Tutto vero. Ma frequentando i Palazzi del potere hanno imparato a riconoscerne trappole e lusinghe. Per mettere in guardia i lettori. E quando la penna è di valore, l'effetto è notevole.
Come è infatti notevole la «controstoria» d'Italia di Alberto Mazzuca - giornalista di lungo corso, espertissimo di economia e curiosissimo di politica - intitolata Penne al vetriolo (Minerva). Ossia: il nostro secondo Novecento raccontato dai grandi giornalisti in 680 pagine straricche di battute, aneddoti, retroscena, ritratti, citazioni... È la narrazione, in presa diretta a cura di celebri testimoni oculari, dell'Italia dal dopoguerra alla Seconda Repubblica, che si dimostrerà uguale alla Prima. «Cambiano i suonatori, ma la musica è sempre la stessa», dirà Enzo Biagi, con un bel calembour che però è un'innegabile verità. Un racconto di «prima penna» dove a parlare non sono (solo) i documenti, ma soprattutto le indiscrezioni, i giudizi a caldo, le voci di corridoio (dei palazzi della politica e delle redazioni dei giornali) e definizioni passate - appunto - alla Storia. Dall'«Italia alle vongole» di Mario Pannunzio ai «padroni del vapore» di Ernesto Rossi.
Tra denunce di sprechi milionari, rivelazioni di guerre intestine ai partiti, demolizione di mostri sacri (Renzi stia sereno, la prima volta che un giornale di partito prese in giro il proprio segretario risale all'agosto 1986, quando Tango uscì con una vignetta in copertina intitolata Nattango in cui Natta balla nudo come una marionetta al suono della musica diretta da Craxi e Andreotti...), e poi gossip d'alto livello (l'amore clandestino in mansarda tra Togliatti e Nilde Iotti) e fake news di basso cabotaggio (quando il Corriere della sera, giugno 1949, dopo la scoperta di un imponente giacimento a Cortemaggiore, titolò, per sbaglio o per interesse, L'Italia ha vinto la battaglia del petrolio. Era una bufala: si trattava di metano...
), ecco un mosaico del Paese-Italia le cui tessere, scelte e annotate con cura da Mazzuca, sono i «pezzi» più belli delle grandi penne, da Gianna Preda (una Numero uno dimenticata) a Fortebraccio, da Arrigo Benedetti alla Cederna, da Longanesi a Montanelli, dalla Fallaci a Gianpaolo Pansa, da Ferrara a Feltri.Una ricostruzione della nostra storia recente - bisogna ammetterlo - molto affidabile. Perché l'unica casta più spietata e con meno scrupoli dei politici è quella dei giornalisti.
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