La poesia di Francesco De Gregori è «classica»

Nel linguaggio comune la musica «classica» è la musica «colta» del passato, in contrapposizione a quella «leggera», contemporanea e di consumo. Entrambe le definizioni sono quanto meno antipatiche, e fuorvianti, come se la musica degli antichi fosse «pesante» e le canzoni «incolte». Per secoli a simili divisioni si era educati senza saperlo. Perfino nel mondo «classico» i frequentatori delle Società del Quartetto si sentivano più colti e aristocratici nel gusto rispetto a quelli che andavano all'opera popolar-plebea. Fin da bambino ho sentito canzoni a tutto spiano, ma non le avrei mai messe accanto alla musica classica. Mio zio, Nanni Ricordi, rabdomante di talenti e «discografico» di professione (un libro appena pubblicato dal Saggiatore, L'inventore dei cantautori, racconta la sua storia attraverso le voci di tanti artisti meravigliosi), mi ha insegnato che a contare non erano la forma o la destinazione ma il contenuto e l'interprete. Questo ho pensato ascoltando il concerto di un cantante che non era della sua «scuderia», ma che amava molto, anche come uomo schivo e vero, Francesco De Gregori, applaudito in Piazza Riforma a Lugano. La sua voce ti racconta storie semplici, filastrocche, ballate che si sintonizzano nella parte più segreta di noi.

È una voce di poesia che in un mondo di volgarità, di grida scomposte, di ignoranza stimola l'intelligenza civile con il pudore. E le sue canzoni non subiscono lo scacco del tempo: la donna cannone, il generale dietro la collina, l'attore, Nino e i rigori da tirare, Alice e i suoi gatti. È un musicista classico.

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