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Il poeta e soldato d'Annunzio in volo oltre paura e coraggio

Dall'incidente aereo del 1916 nacque il "Notturno" Poi vennero la "beffa di Buccari" e l'impresa di Vienna

Il poeta e soldato d'Annunzio in volo oltre paura e coraggio

Il 12 settembre 1909 Franz Kafka era al Circuito aereo di Montichiari, Brescia, per assistere alla prima esibizione di aerei in Italia settentrionale. Nel suo taccuino annotò - ironico - di avere osservato un eccitatissimo d'Annunzio «sgambettare» fra le signore più eleganti. Ma, a differenza di Kafka, lo scrittore italiano quel giorno volò per la prima volta. «È una cosa divina», disse d'Annunzio: «Il momento in cui si lascia la terra è di una dolcezza infinita. È un nuovo bisogno, una nuova passione». Cinque mesi dopo pubblicò Forse che sì forse che no, anticipando la passione dell'umanità per le grandi imprese aviatorie e le trasvolate audaci. Paolo Tarsis, come gli altri protagonisti dei suoi romanzi, è un superuomo, ma stavolta la sua natura peculiare non appartiene al mondo intellettuale, bensì a quello dell'azione, e preannuncia le future svolte dannunziane.

Ha già rotto tutti gli schemi dell'Italietta borghese di fine Ottocento, con i suoi romanzi e con la sua vita «scandalosa» fatta di amori, sesso, lussi senza freno. Ora - in un impeto più patriottico che nazionalista, più estetico che guerriero - vuole «una più grande Italia». E quando finalmente l'Italia entra nella Prima guerra mondiale, anche grazie al suo interventismo, il Vate esige il battesimo del fuoco: poche ore dopo la dichiarazione di guerra viene richiamato in servizio come ufficiale dei Lancieri di Novara.

I suoi 52 anni ne fanno il tenente più anziano delle forze armate, ma sin dall'inizio della sua guerra, mette a tacere quanti insinuavano che valore e coraggio fossero solo astrazioni da ciarlatano. La gloria, cantata in discorsi e poesie come una conquista da meritare, è l'ossessione a cui tende senza risparmio, con un disprezzo del pericolo che lo spinge a escogitare le peripezie militari più provocatorie e pericolose. Il gesto eroico gli appartiene davvero, non è affettazione letteraria, ma qualcosa di simile alla «creazione di un poema». «Io non sono un letterato dello stampo antico in papalina e pantofole», scrive: «Io sono un soldato. Ho voluto essere un soldato, non per stare al caffè o a mensa, ma per fare semplicemente quello che fanno i soldati». Le sue imprese - in cielo, in mare, in terra - suscitarono una tale irritazione nel governo austriaco da indurlo a fissare una taglia di ventimila corone per la sua cattura.

Il 15 gennaio 1916, in un incidente aereo, rischia di perdere l'occhio destro. Costretto a letto, entrambi gli occhi bendati, si rassegnò alla condizione dell'infermo, ma non dell'inetto. Completamente bendato per due mesi, cominciò a scrivere a matita su sottili strisce di carta: piccoli cartigli poggiati su una tavoletta. Vergò così, su migliaia di striscioline, il Notturno, un capolavoro che rinnova la letteratura italiana. «Questa è la mia magìa. Nel dolore e nelle tenebre, invece di diventar più vecchio, io divento sempre più giovine». Troverà modo di sfruttare la disgrazia anche definendosi «l'orbo veggente» e tagliando in due il viso, altrimenti banale, con una benda nera sull'occhio destro. Acconciato come un pirata, compirà la Beffa di Buccari, penetrando con tre MAS nel più inviolabile porto austriaco.

Intanto, sognava l'impresa definitiva, un volo su Vienna sorvolando le Alpi, un'impresa che sembrava impossibile con i mezzi dell'epoca. All'alba del 9 agosto 1918 dal campo di San Pelagio, Treviso, si alzarono undici apparecchi: uno, di legno e tela, senza protezioni dal vento, senza strumenti di volo, era stato modificato per accogliere il poeta, che aveva con sé trecentonovantamila volantini e praticamente volava nel serbatoio del carburante. Solo sette degli aerei arrivarono sul cielo di Vienna, ma tra questi c'era anche il suo. Il messaggio del Vate incitava i viennesi alla resa: «In questo mattino d'agosto, mentre si compie il quarto anno della vostra convulsione disperata e luminosamente incomincia l'anno della nostra piena potenza, l'ala tricolore vi apparisce all'improvviso come indizio del destino che si volge...». Aveva un anello contenente veleno, nel caso fosse stato catturato. Un superuomo poteva manifestare soltanto la paura di non avere coraggio.

Dopo la guerra pensava a un'altra grande impresa, stavolta di pace: il volo Roma-Tokyo, mai tentato prima. Quasi tutto era pronto quando invece volle occupare la città di Fiume, che i trattati di pace non assegnavano all'Italia. Conquistata la città come un condottiero rinascimentale, primo poeta al comando nella storia, a Fiume scrisse una delle più avanzate costituzioni del Novecento, la bellissima Carta del Carnaro, che fa impallidire molti testi costituzionali vigenti oggi nel mondo, per la sua apertura democratica e per la spregiudicatezza di molti suoi assunti centrali, che oggi definiremmo libertari. Fiume fu un'anticipazione del Sessantotto, piuttosto che del fascismo, e da Fiume d'Annunzio mandò l'amico Guido Keller a volare su Roma per lanciare un pitale su Montecitorio.

Dopo l'impresa si ritira al Vittoriale, per edificare quel «libro di pietre vive» che donerà agli italiani con queste parole: «Già vano celebratore di palagi insigni e di ville suntuose, io son venuto a chiudere la mia tristezza e il mio silenzio in questa vecchia casa colonica, non tanto per umiliarmi quanto per porre a più difficile prova la mia virtù di creazione e di trasfigurazione. Tutto infatti è qui da me creato e trasfigurato. Tutto qui mostra le impronte del mio stile nel senso che io voglio dare allo stile».

Ma il tempo è impietoso anche con gli eroi e i poeti, e per d'Annunzio giunge quella che definisce la «turpe vecchiezza». Il conquistatore di lauri poetici, di città e di donne si deve confrontare ora con un nemico che giorno dopo giorno prende sempre più il sopravvento.

Ecco allora che nemmeno la penombra della Prioria, come chiama la sua casa, basta più a celare l'uomo in rovina, «senza denti, con la lingua grossa tra le labbra rientrate». È questa l'unica prova di coraggio che non è in grado di affrontare.

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