Sanremo 2020

La popolarità senza fine dei Ricchi e Poveri: "Siamo i fratelli d'Italia"

Il gruppo riunito torna all'Ariston a mezzo secolo dal successo di «La prima cosa bella»

La popolarità senza fine dei Ricchi e Poveri: "Siamo i fratelli d'Italia"

nostro inviato a Sanremo

Avercene di Ricchi e Poveri. Non avranno cambiato la musica ma neppure idee e anche oggi, mezzo secolo dopo il successo della Prima cosa bella, sono rimasti quella roba lì: spensierati e positivi. «Belin, qui a Sanremo abbiamo fatto dell'arredamento per decenni» hanno detto arrivando in sala stampa più fotografati di un divo da fiction. La critica li ha spernacchiati per anni mentre loro vendevano dischi e biglietti. Ora quella critica è morta e sepolta, i Ricchi e Poveri no. Piaccia o no, sono un simbolo. E la memoria ha bisogno di simboli per rivivere. E si è visto pure ieri sera all'Ariston con il pubblico che cantava a squarciagola Sarà perché ti amo mentre Angelo Sotgiu (qui di seguito, il bello), Angela Brambati (la brunetta), Marina Occhiena (la bionda) e Franco Gatti (il «nasone») ridevano con gli occhi.

Si sono ritrovati sul palco tutti e quattro insieme dopo 39 anni, dopo quel litigio che diventò un tormentone da rotocalco. Secondo la vulgata, la bionda avrebbe «rubato» l'uomo della moretta, ma è roba passata, come conferma il più genovese di tutti, ossia Gatti: «Non è stata cacciata e non ha rubato niente perché i rapporti di Angela con il suo compagno erano già a pezzi». «Avevo solo voglia di lasciare il gruppo», spiega la bionda che è bionda come sempre. D'accordo, sarà stata una storia di cuori e orgogli spezzati ma ormai chissenefrega. «Abbiamo iniziato in quattro ed è giusto finire in quattro» dice Gatti. E così il manager Danilo Mancuso è andato a casa di Marina Occhiena, l'ha convinta «a ricucire uno strappo che c'era da troppo tempo». Ora esce un Greatest Hits e di sicuro pioveranno richieste di concerti perché «può succedere di tutto».

In poche parole, i Ricchi e Poveri sono la tomba dei pregiudizi e la conferma che la musica popolare magari non intercetta temi di impegno civile o politico ma si intreccia con le vite di una o più generazioni molto più profondamente di quasi tutte le altre forme espressive. Loro manco ci pensavano: erano quattro ragazzi «sgangherati» che a fine anni Sessanta volevano campare con il loro gruppo polifonico. «Ci ha scoperti Fabrizio De André, poi ci ha messi sotto contratto Franco Califano, che ha fatto la rivoluzione. Ha fatto tagliare i capelli ad Angela, ha fatto tingere di biondo Marina e Angelo e a Franco ha detto di non fare niente perché era già perfetto così», ridacchiano. Ha pure trovato il nome quando ha capito che non avevano una lira e quindi erano «ricchi di spirito ma poveri in tasca». Facevano musica popolare quando era impopolare. Quando bisognava per forza essere impegnati, meglio se politicamente schierati, meglissimo politicamente schierati a sinistra. E avevano trovato il giusto equilibrio tra le voci.

Anche ieri, mentre improvvisavano una Se m'innamoro in quattro e quattr'otto, erano quattro strumenti che sapevano intrecciarsi con una sincronia spettacolare in questi tempi di digitalizzazione assoluta e di musica costruita con i beat e non con la chitarra o il pianoforte. «Di certo le critiche ci hanno ferito per tanti anni - parola del bello - anche se spesso capivamo che erano frutto di linee editoriali e non di giudizi spontanei. Una volta, nel 1986, alla fine di uno dei nostri concerti a Mosca c'era un critico che si era commosso con la nostra musica (Mario Luzzatto Fegiz del Corriere della Sera, ndr). E di certo lui non aveva scritto tanto bene di noi». Il tempo passa, le belle canzoni restano.

«Ormai siamo entrati così tanto nelle famiglie degli italiani che siamo percepiti come parenti, come zii o fratelli di ciascuno dei nostri ascoltatori» dice la brunetta che, quando parla, sembra sempre che inizi «mammamà mammamariamà» e, invece che con il tablet in mano, ti ritrovi sul divano in tinello davanti a una tv grossa come una lavatrice.

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