Cultura e Spettacoli

"Porto Carroll sul palco per tradurre i suoi sogni"

L'attrice e drammaturga ha curato la nuova edizione di "Sylvie e Bruno" e l'ha trasformata in uno spettacolo

"Porto Carroll sul palco per tradurre i suoi sogni"

Sylvie e Bruno è l'ultimo romanzo di Lewis Carroll (1832-98). Il terzo, dopo Alice nel Paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio: pubblicato in due volumi nel 1889 e nel 1893, inizialmente non ebbe il successo dei precedenti, ma fu poi di ispirazione alle generazioni successive, e per Joyce su tutti. La storia si muove fra due mondi, quello reale, dove la bella e intelligente Lady Muriel vive un amore ostacolato dalle convenzioni, e quello fantastico, dove la dolce Sylvie e il fratellino Bruno sono alle prese con i cattivi che hanno detronizzato il padre. Ed è fra questi due mondi che si muove anche Chiara Lagani, traduttrice della nuova, bellissima edizione di Sylvie e Bruno appena pubblicata da Einaudi (pagg. 534, euro 24), che sarà presentata sabato 19 giugno alle 18.30 alle Artificerie Almagià in occasione di Ravenna Festival, poiché Lagani è attrice e drammaturga e quindi, un po' nei panni di Lady Muriel e un po' in quelli di Sylvie, porta anche sul palco, da oggi fino a sabato, lo spettacolo omonimo, frutto di una coproduzione fra Ravenna Festival, E Production/Fanny & Alexander e Ravenna Teatro.

Insomma una immersione totale nel mondo di Carroll.

«È stato molto divertente, è un libro fantasmagorico, che offre molti spunti. Lo spettacolo è un'altra traduzione, questa volta nel linguaggio del teatro: del resto tradurre è ascoltare una voce, un procedimento simile a quello del teatro stesso».

Secondo Giorgio Manganelli, tradurre Sylvie e Bruno era un'impresa «impossibile». Che cosa l'ha spinta a farlo?

«Forse è proprio uno dei motivi, l'impossibilità è una sfida aperta quando si lavora col linguaggio. Il regista della mia compagnia e io ci siamo innamorati di questo romanzo vent'anni fa e avremmo voluto farne un film. Così, dopo aver tradotto I libri di Oz, sempre per Einaudi, e aver portato i due libri di Alice a teatro, ho deciso di raccogliere questa sfida e tentare una nuova traduzione dopo quella di Cordelli per Garzanti, negli anni '70».

Gli ostacoli maggiori?

«Più che i giochi di parole, anche se Carroll è un vero artefice di giocolerie verbali, e poi c'è anche il linguaggio infantile di Bruno e vi si parlano tutte le lingue, perfino quella dei cani e c'è un florilegio di parole diverse, il punto è che il libro si pone di fronte come un rebus, del quale anche il lettore è chiamato a sciogliere gli enigmi; e l'enigma, come quello più tragico della Sfinge, implica un contratto dell'anima e dell'immaginario collettivo».

Quanto ha impiegato a tradurlo?

«In modo intensivo un anno e mezzo. Durante il lockdown, nell'isolamento, mi svegliavo ogni mattina con questa bussola, una voce amica e nemica che mi accompagnava nelle paure, nelle ansie e nelle speranze quotidiane. Nel romanzo poi c'è anche il tema della malattia: il narratore soffre di cuore e a un certo punto un malanno misterioso contagia un villaggio...».

Ci sono altri elementi di risonanza con l'attualità?

«La sensazione di dissociazione col corpo. Abbiamo vissuto chiusi nelle nostre cellette, con finestre mediatiche sul mondo, staccati dai nostri corpi come nei sogni, proiettati in dimensioni altre, in cui ci sei e non ci sei...»

Come nel romanzo?

«Sì, la narrazione ci fa proprio sbalzare da una storia all'altra, con una sensazione continua di bilico, di vertigine, in cui non capisci il confine fra il vero e l'onirico. È la sfida di Carroll: si può leggere un libro come se stessi sognando? È l'ultimo duello della sua battaglia col linguaggio, in cui sfida tutte le convenzioni, e non gli importa di scrivere il romanzo perfetto, cristallino, pur di realizzare una sperimentazione avvincente».

Nelle sue prefazioni Carroll spiega il metodo con cui ha scritto il romanzo, ovvero a partire «dagli accidenti», dal caos.

«È uno degli aspetti più affascinanti: Carroll si pone come un artefice di sogni, uno spazzino che, per dieci anni, raccoglie materiali diversi, episodi, fatti, immagini, frasette di bambini sentite per strada, articoli, polemiche...»

E ne fa ironicamente «litter-atura», la letteratura-immondizia?

«Questa era una delle parole intraducibili... Questo accumulo di materiali è una immondizia sfavillante, una dinamite; ma allo stesso tempo c'è l'idea, forte, che la letteratura sia anche un ammasso tossico, non soltanto catarsi: qualcosa che ti spinge al sorriso ma, dopo, un respiro, ti lascia l'amaro in bocca perché dischiude qualcosa di spaventoso».

Può essere davvero un romanzo per bambini, come pensava Carroll?

«È la sua utopia, un romanzo complesso che parli anche ai bambini. I ragazzi con cui ho lavorato per le voci di Sylvie e Bruno in scena hanno ascoltato rapiti alcune pagine... Del resto Bruno, con le sue storpiature, dice cose molto adulte: il suo linguaggio infantile è l'epicentro immobile di un mondo che cade a pezzi, il cuore del divertimento di un gioco che però può anche fare paura.

La sfida è stata proprio tenere sempre vivo questo linguaggio che si crea e si distrugge, che è inizio e fine di tutto, continuamente».

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