Il potere della censura e la ribellione di un censore nella Russia di Stalin

Eleonora Barbieri

Roman Markin è un censore. Uno dei migliori, un genio dell'oblio: cancella i volti di chi non deve comparire nella storia dell'Unione Sovietica. Lavora per il Ministero dell'agitazione e della propaganda di partito: corregge, «liscia» le guance di Stalin, cancella nemici, oscura traditori, prima con semplice inchiostro di china, poi con l'aerografo, perché «la maschera d'inchiostro stava a significare che il traditore poteva esistere, un'affermazione che fa presto a diventare essa stessa un tradimento». Roman Markin, servitore fedele del Partito e dell'ideale comunista, è il protagonista (anche se non l'unico) del nuovo romanzo di Anthony Marra, molto bene accolto in America così come era stato il primo (anche molto premiato, La fragile costellazione della vita, Piemme), che in originale si intitola The Tsar of Love and Techno, cioè «lo zar dell'amore e della tecno» e in italiano è La confessione di Roman Markin (pubblicato da Frassinelli, pagg. 312, euro 19,50).

È il 1937, le purghe staliniane sono già cominciate. Markin è a tal punto parte del sistema che, informato che il fratello Vas'ka sarà arrestato, non lo avverte e non gli salva la vita. Anzi, un giorno ne cancella il volto da una fotografia. Poi però il volto di Vas'ka inizia a rispuntare ovunque, a tutte le età, bambino, adolescente, adulto, anziano, moltiplicato nei ritratti e nelle fotografie censurate da Roman, una specie di ricompensa postuma, una specie di ripescaggio dall'oblio a cui l'ha condannato la dittatura. Uno di quei ritratti, con Vas'ka in miniatura, finisce nell'ufficio di Stalin; altri sono appesi nei supermercati, nei tribunali, nelle scuole, nelle prigioni, nei ministeri del Paese che l'ha cancellato. Qualcosa è scattato in Roman: deve cancellare una ballerina da una fotografia, eppure lascia la sua mano, sollevata, visibile. Una svista? Un atto di guerra nascosta al sistema?

La più piccola aspirazione alla libertà è già un tradimento. Roman Markin, come dice il titolo, finirà pure lui nelle prigioni di Stato, a confessare crimini mai commessi, denunciato da non si sa chi e perché (si saprà, alla fine). Il romanzo di Marra si estende temporalmente fino al 2013, per svelare tutti i nodi di una trama che dall'allora Leningrado arriva a Pietroburgo passando per la Cecenia e la Siberia. Nell'estremo nord, nell'Artico inabitabile dove, in inverno, ci sono quindici minuti al giorno di luce, c'è una città che si chiama Kirovsk. Vive grazie al nichel e alle fonderie, i Dodici Apostoli con le loro ciminiere che tingono il cielo di rosso, di blu, di giallo uovo, a seconda di quello che è finito nei forni (ferro, cobalto, nichel appunto). Il Lago (artificiale) si chiama Mercurio e c'è perfino una Foresta Bianca, finta, con piante di acciaio (che nel Ventunesimo secolo qualcuno vuole trasformare in riserva naturale...). A Kirovsk, città mineraria costruita dai prigionieri e dalle prigioniere del gulag locale, un abitante su due muore di cancro ai polmoni. Nel gulag era finita quella ballerina, quella della fotografia censurata (a metà) da Roman Markin. A Kirovsk, decenni dopo, vive la nipote Galina, bella e ingenua: diventa Miss Siberia, sposa un oligarca, ma non dimentica il suo primo amore, Kolja, una ragazzo che finirà soldato in Cecenia.

La Cecenia è una fissa di Anthony Marra, forse perché, quando studiò un semestre a San Pietroburgo, durante l'università, «da americano» non sapeva nemmeno dove si trovasse sulla mappa o come scrivere correttamente il nome. In Cecenia si snoda parte della vicenda, fra una tela del pittore ottocentesco Zacharov che ritrae un paesaggio bucolico che passa di mano in mano ed è una specie di totem, mine, prigionieri, e una certa Nadja, restauratrice d'arte, che ha anche lei una fissa: ha fatto una tesi sulle immagini ritoccate all'epoca di Stalin e da anni cerca di capire a chi appartenga un volto che compare sullo sfondo di ogni fotografia, di ogni quadro, a età sempre diverse. Non sa chi sia, ma sa che cosa sia: è «la firma dell'anonimo censore».

Roman Markin, il censore, che dal suo lavoro ha imparato che «occorre niente meno che tutta la forza dello Stato per cancellare una persona, ma basta l'errore di un singolo individuo, se è così che viene chiamato oggi il ricordo, per preservarla».

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