Stefania Vitulli
«Non mi aspettavo queste reazioni. Ho applicato l'abitudine che pratico nel mio lavoro scientifico: quando si fanno le revisioni, è buona norma soffermarsi sugli elementi negativi anziché fare una presentazione o lode generica. Pensavo fosse mio dovere, e anche normale, che un giurato facesse questo tipo di lavoro. Ma forse in Italia ci si è abituati a giurie in cui i problemi vengono nascosti o negletti e si preferisce dire che va tutto bene». Così ci risponde Lorenzo Tomasin, docente di filologia romanza all'Università di Losanna e membro della Giuria dei Letterati del Premio Campiello dalla scorsa edizione.
Con la sua panoramica dell'offerta narrativa del 2017, il professore ha dato fuoco alle polveri di un confronto sulla qualità dello stile degli scrittori italiani contemporanei e le reazioni ci sono state eccome: l'intervento di Tomasin è stato classificato come «polemica», terrore e benedizione insieme. Delle cinque «prime scelte» di Tomasin, tre sono arrivate alla finalissima - Helena Janeczek, Davide Orecchio, Rosella Postorino mentre Gianrico Carofiglio con Le tre del mattino (Einaudi) e Gian Mario Villalta con Bestia da latte (Sem), su cui Tomasin si è battuto fino all'ultimo voto, non hanno avuto la stessa fortuna: «Siamo onesti - ci spiega - Ogni giurato sapeva quali erano in linea di massima gli orientamenti degli altri e nell'espressione del voto c'è stato il correttivo della strategia. Avevamo l'obbligo contrattuale di sceglierne cinque e trovare una convergenza. Sui migliori o, in alcuni casi, sui meno peggiori».
Il «Meno peggio» è proprio il fuoco del commento di Alfonso Berardinelli che sul Foglio di ieri bacchetta i «romanzi-paccottiglia» selezionati da premi «populisti»: «Premieranno il meno peggio anche quando il meno peggio sia un evidente peggio», scrive il critico. Un fronte sdegnato, colto e compatto dunque? I primi interrogabili sono i cinque finalisti 2018. «La prospettiva delle persone che scrivono - e soprattutto leggono - con la passione per i libri è di scegliere liberamente. E devo dire che quello che mi piace e che mi interessa, sul mercato, non è poco» commenta Helena Janeczek, in cinquina con La ragazza con la Leica (Guanda). «Forse non ci sono capolavori, ma se il capolavoro non è conclamato è difficile vederlo nella contemporaneità. Essendo entrata nella schiera dei salvati, replico che non mi sembra giusto dire che ci siamo solo noi: questo tipo di affermazione, anziché valorizzare le eccezioni virtuose, le offusca. La questione che Tomasin pone si ripresenta regolarmente come il Natale. Forse la cosa più importante e utile da fare sarebbe capire come far emergere i buoni libri».
Un lucido dubbio sulle affermazioni di Tomasin viene anche da Rosella Postorino, in finale con Le assaggiatrici (Feltrinelli): «Non esiste uno stile separato dal contenuto, la lingua non è un oggetto rigido che si applica alla storia dall'alto. Ogni lingua scelta per un libro deve aderire il più possibile alle intenzioni di quel preciso libro. Nessun editor si permetterebbe di standardizzare la lingua di uno scrittore, e nessun vero scrittore glielo lascerebbe fare: questo posso dirlo a partire dalla mia duplice esperienza. Poi, esistono anche i libroidi, come li chiama Gian Arturo Ferrari nel suo Libro, e che Tomasin menziona, pur non chiamandoli così. Ma nessuno nemmeno il lettore più ingenuo, io spero crede che si tratti di letteratura». Anche Ermanno Cavazzoni, selezionato per La galassia dei dementi (La nave di Teseo) storce il naso: «La gran parte di chi scrive oggi scrive alla moda: un po' di impegno, un po' di mafia, un po' di rapporto uomo-donna... Però anche a rileggere i romanzi degli anni Trenta sembrano quasi tutti uguali: dannunziani, verbosi, interscambiabili. Non è dunque sintomatico di questa epoca, ma di ogni epoca. I libri che restano sono i libri che escono dal loro tempo».
Ci sono però almeno due voci che sostengono Tomasin. Davide Orecchio, autore di Mio padre la rivoluzione, minimum fax: «Libri belli, che qualche anno fa neanche uscivano, ci sono. Ma sui grandi numeri ha ragione il critico: impoverimento, deterioramento. E la cosa che più mi stupisce è che non ci sia, al di fuori del recinto dell'editoria, una controcultura: chi sta fuori usa gli stessi stili. Non è momento per la sperimentazione: l'intellettuale del nostro tempo è vittima della tendenza alla superficialità». Ancor più ficcante Francesco Targhetta, tra i cinque per Le vite potenziali (Mondadori): «Vengo dalla poesia e per me la cura meticolosa della parola è fondamentale. Leggendo narrativa italiana noto che il plot ha invece il peso più forte e la sintassi è quella paratattica all'americana.
Più coraggio nei temi, nuova priorità per lo stile o molti libri saranno penalizzati: basti il caso di Cartongesso di Maino (Einaudi), un romanzo fatto solo di stile, rifiutato da tutti e pubblicato solo perché vinse il Calvino».
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