Il profilo Non si tirò mai indietro

Sembra impossibile dire addio ad Anna Proclemer. Anche se la sapevamo da tempo malata, l'averla riveduta con la magistrale autorità di sempre in Magnifica presenza, l'ultimo film di Ozpetek in cui incarnava una Lady Macbeth sui generis che, negli anni bui delle leggi razziali, denunciava i colleghi all'inferno della deportazione ci aveva illuso su un suo imminente ritorno alla professione. Abbracciata per scommessa a diciott'anni, nel '41 con Minnie la candida di Bontempelli al teatrino dell'Università di Roma dove si preparava alla laurea in Lettere. Un esordio in sordina che passò quasi inosservato in quegli anni di guerra che tuttavia temprarono il carattere di quella ragazza trentina dal nome a quel tempo impronunciabile. Che in poco tempo senza passare da nessuna Accademia d'Arte Drammatica che non fosse il duro apprendimento quotidiano alla scuola di Bragaglia prima e a quella di un maestro come Orazio Costa poi si affermò con l'impeto e il rigore di un'interprete d'eccezione nei primi copioni dei nuovi autori di casa nostra.
Da Fabbri ad Ugo Betti fino al giovane Brancati che Anna sposò a fine conflitto dopo aver portato al successo il suo atto unico Le trombe di Eustachio. Ma per giungere alla consacrazione di un talento come il suo che, in quella voce indimenticabile, trascorreva dai toni arguti della pochade a quelli della tragedia (con la Mirra di Alfieri) e del dramma intimista di Cechov (Il Gabbiano diretto da Strehler al neonato Piccolo di Milano) bisognò attendere gli anni cinquanta. Quando Anna formò col coetaneo Vittorio Gassman e un regista colto e severo come Squarzina un trio di straordinaria potenza evocativa trascorrendo da Ofelia a Giocasta fino all'eccentrica Elena del Kean di Dumas. Prima che due amici come Renzo Ricci ed Eva Magni la inserissero d'autorità nella loro compagine per far coppia ad un ragazzo fiorentino pieno di fuoco di nome Albertazzi, transfuga per amore del teatro dalla facoltà di architettura. Era una compagnia capocomicale che prevedeva, fatto insolito per le nostre scene, oltre ai titolari del gruppo due protagonisti giovani scritturati per portare al successo i nuovi testi importati dagli Usa come, ad esempio, la Ragazza di campagna di Odets. Seguita a ruota, quando si affermò la ditta Proclemer-Albertazzi, dai copioni di Brusati fino alla splendida Governante di Brancati, fermata pochi anni prima da un assurdo divieto censorio. Un complesso, il loro, che tra l'altro ebbe il coraggio di sdoganare D'Annunzio dal più vieto accademismo con una memorabile edizione della Figlia di Iorio, prima che la coppia abbordasse l'impervio compito di portare a nostra conoscenza Requiem per una monaca di Faulkner riveduto e corretto da Camus e il capolavoro di Sartre I sequestrati di Altona, acme del sodalizio artistico e intellettuale della coppia. Che in seguito, pur continuando sporadicamente a collaborare insieme, sembrarono attratti da altri fantasmi. Con Giorgio percorse da maestra le vie della sperimentazione.

Ea adesso che la luce si è spenta su una delle massime protagoniste del teatro italiano, il nostro rimpianto va all'intelligenza, alla dedizione, all'entusiasmo di quel periodo di intenso fervore creativo. Oggi quasi totalmente assente dalla nostra società dello spettacolo che di un'Anna saprebbero, temo, ben poco che fare.

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