Pupi Avati: "Gino Paoli in una notte lo lanciò come solista"

Il regista: "Suonavamo lo stesso strumento. Lui era più bravo, il smisi e passai al cinema"

Pupi Avati: "Gino Paoli in una notte lo lanciò come solista"

L’amicizia tra Pupi Avati e Lucio Dalla era di quelle rare, tanto più in un mondo un po’ fatuo com’è quello dello spettacolo. Durava da mezzo secolo, con alti e bassi, certo. Il musicista e il regista condividevano fin da giovani tante affinità e rivalità elettive. Entrambi bolognesi, erano amanti del jazz e desiderosi di affermarsi. Una storia che Avati ha raccontato in Ma quando arrivano le ragazze? «Negli ultimi tempi, ci eravamo riavvicinati», rivela il cineasta. «Lucio aveva scritto la colonna sonora degli ultimi due film, Gli amici del Bar Margherita e Il cuore grande delle ragazze. Ci sentivamo quasi ogni giorno e stavamo carezzando l’idea di un film musicale».

Quando un grande amico se ne va, ci scorre davanti agli occhi tutta la vita. Qual è il primo ricordo che le è venuto in mente?
«Il primo ricordo riguarda l’ultima volta che ci siamo visti in occasione della presentazione del Cuore grande delle ragazze. In quella serata ci siamo detti pubblicamente il nostro reciproco affetto. Credo di aver voluto bene a poche persone come a Lucio. Perché sentivo che il suo era un sentimento senza secondi fini. Era un artista affermato, non aveva bisogno di musicare i miei film. E per questo il suo affetto disinteressato era, oltre che utile, commovente».

Fu il jazz a farvi incontrare?
«Sì, più di cinquant’anni fa. Lui aveva 16 e io 21. Fui mandato in esplorazione ad ascoltare questa nuova orchestrina di giovani. Andai, ascoltai e me ne tornai contento perché lui, che suonava il clarinetto come me, lo suonava malissimo».

Poi il jazz vi fece anche scontrare.
«Quando iniziammo a esibirci insieme il suo talento esplose in modo tanto misterioso quanto prorompente - come accade sempre quando si tratta di talento vero - da ridurmi al silenzio. Smisi di suonare e attraversai anni di sofferenza. Una volta a Barcellona pensai anche di spingerlo giù dalla Sagrada Familia. Poi mi diedi al cinema».

Aveva più talento di lei, anche se magari non ne era consapevole?
«Certo che ne era consapevole. La sua carriera è stata un modello straordinario di autogestione. Aveva una capacità di autopromozione assolutamente innovativa per i suoi tempi. Basta contestualizzare i testi per rendersene conto».

Un musicista divenuto cantautore...
«Ero presente la sera in cui fu scoperto come cantautore. Stavamo suonando in un locale che si chiamava Whisky a gogò e venne ad ascoltarci Gino Paoli. Lucio cantava Careless Love, una famosa ballad americana, e Paoli lo chiamò al suo tavolo. Un mese dopo pubblicò il primo disco prodotto da Paoli».

Lei ne parla come dell’amico definitivo: c’era qualcos’altro che vi univa oltre alla musica?
«Un certo senso religioso della vita. Lucio era credente e praticante. Ma soprattutto aveva grande rispetto delle persone e della vita. Aveva un senso di sacralità all’esistenza che coincideva con il mio».

Sulla politica invece litigavate?
«Ho avuto la fortuna di non aver mai capito che opinione avesse in politica. Così come lui non ha capito quale fosse la mia. Era un cane sciolto come ogni vero artista dovrebbe essere».

Progettavate anche un film musicale?
«A lui sarebbe piaciuto molto.

Ma si trattava di un’idea utopistica perché in Italia nessuno produrrebbe un film musicale».

C’è una canzone preferita del suo repertorio?
«Sì, quella che comincia con “Caro amico ti scrivo”: L’anno che verrà».

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