Ma quanto sono bugiardi gli scrittori?

Ecco tutti i motivi per chi si sceglie uno pseudonimo. Da Senofonte alla Rowling

Ma quanto sono bugiardi gli scrittori?

Strano. L'uso di un nome fittizio e la pratica del «nascondimento» non sono mai stati così popolari come nell'epoca, la nostra, della sovraesposizione mediatica. Proprio quando tutti vogliono essere socialmente famosi prolificano i nickname. La pseudonimia ormai è un rito di massa. Ma, letterariamente, il nome de plume è una pratica antica. E gloriosa.

L'ultima autrice in ordine di tempo che a livello mondiale ne ha fatto splendido uso è, ovviamente, Elena Ferrante. Pseudonimo dietro il quale per alcuni si nasconde Anita Raja, moglie di Domenico Starnone e traduttrice della casa editrice e/o che pubblica i libri della scrittrice fantasma; per altri (come i professori che un paio di settimane fa si sono ritrovati a convegno a Padova per rivelare i risultati dell'analisi testuale dei romanzi della Ferrante), il solo Starnone; e per altri ancora (come noi) un collettivo composto da Starnone, la moglie e l'editore Sandro Ferri. Del resto si dice al-ter ego.

Ma prima della Ferrante sono molti gli autori che hanno giocato con la propria identità. Mario Baudino, da vero investigatore bibliofilo, li ha inseguiti, scovati, studiati, smascherati uno a uno... E raccontati - lui che sa chi sono, tutti - nel saggio Lei non sa chi sono io (Bompiani). Scegliendo i casi più esemplari e romanzeschi. Del resto la galleria dei ritratti di coloro che sono passati alla storia con un altro nome è lunga: dal greco Senofonte che raccontò le propria eroica impresa, nell'Anabasi, col nome di Temistoge, a Samuel Langhorne Clemens, che scelse di firmarsi Mark Twain, dal grido in uso nello slang dei barcaioli del Mississipi per segnalare la profondità delle acque: «mark twain», «segna due», inteso come braccia. Così come molte sono le ragioni della scelta: John le Carré, alias David John Moore Cornwell, agente del servizio segreto britannico, lo fece per questioni di sicurezza. La Ginzburg e Bassani, perché negli anni '40 era meglio evitare di pubblicare con un cognome ebreo. Il reverendo Charles Lutwidge Dodgson per tenere distinto il serio matematico, che usava il vero nome, dall'ambiguo romanziere, che scelse di chiamarsi Lewis Carroll. La Rowling per provare a se stessa (ma la critica non se n'è accorta) che vale anche se non scrive Harry Potter. Poi c'è chi cambiò nome per omaggio a un poeta amato (Pablo Neruda), chi per ragioni commerciali (Joseph Conrad), chi per opportunità politica (un lungo elenco, da Silone a Malaparte), chi per fuggire la propria condizione sociale (George Orwell).

Ci sono nomi di battaglia (i futuristi Farfa o Folgore), criptonimi (François Rabelais, che era un frate, per il suo La vie de Gargantua et de Pantagruel scelse l'anagramma Alcofribas Nasier, in modo da evitare guai con l'Inquisizione), eteronimi (il molteplice Pessoa), donne che diventano uomini (le sorelle Brontë, George Sand, George Eliot...) e uomini che si finsero donne (Prosper Mérimée vestì i panni editoriali di una fantomatica poetessa spagnola, Clara Gazul). Le vie dello pseudonimo sono infinite. Come gli infiniti pseudonimi usati da Georges Simenon prima di essere Georges Simenon...

Il gioco dei nomi inventati contempla varianti impensabili. E incredibili coincidenze.

Uno degli pseudonimi più famosi della letteratura è quello che Romain Gary (all'anagrafe Roman Kacew...) scelse per La vita davanti a sé, con cui nel 1975 vinse il suo secondo premio Goncourt: Émile Ajar. Già, Ajar. Che, o al contrario, si legge Raja. E si torna a Elena Ferrante.

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