Cultura e Spettacoli

Quei "Cavalli di razza" che sanno galoppare al passo con gli uomini

Da un memorabile Kentucky Derby ai riti delle corse. Risalendo fino all'alba della civiltà

Quei "Cavalli di razza" che sanno galoppare al passo con gli uomini

«Il suo corpo in movimento è uno degli spettacoli che potremmo offrire agli alieni quando verranno a chiederci perché dovrebbero risparmiare il nostro mondo». Secretariat, campione leggendario oggi noto al grande pubblico di Netflix in qualità di mentore del cartone animato Bojack Horseman, è il detentore, dal '73, del record al Kentucky Derby. Dal 1875 all'ippodromo di Louisville si svolge la più prestigiosa corsa di cavalli del mondo, per la gente del posto, una micidiale combinazione tra Natale e Martedì Grasso dove l'importante è essere presenti e, se possibile, evitare la polizia.

Quando John Sullivan chiede a suo padre moribondo quale sia stato il momento più memorabile della sua carriera di giornalista sportivo, è a quella corsa di Secretariat - oggi un filmato sgranato e convulso su YouTube - che va la sua mente: «pura bellezza». Non al baseball, o al football, di cui pure quell'aspirante poeta fallito, gran mangiatore di fritti, bevitore d'eccezione e tabagista impenitente, si era prevalentemente occupato. Per scoprirne il perché, il figlio, collaboratore del New York Times e della Paris Review, si metterà sulle sue tracce con questo libro anomalo, puntellato di aneddoti esilaranti e nozioni improbabili, tra saggio, reportage e autobiografia: Cavalli di razza. Appunti del figlio di un giornalista sportivo, pubblicato da 66th and 2nd (pagg. 256, euro 18).

Si parte da Lexington, città «infestata dai cavalli», raffigurati in calendari e posaceneri nei diner e nelle stazioni di servizio, nelle stampe di Delacroix e Géricault alle pareti delle case piccolo borghesi, fino al raro originale nelle «tenute». Siamo in quella parte di Stati Uniti dove verande, tè freddi, Mint Julep (una sorta di mojito col bourbon al posto del rum), armi da fuoco e praterie rendono già tutto irrimediabilmente western. Se è vero che i protagonisti del libro sono i cavalli, è altrettanto vero che i cavalli non parlano con i giornalisti e non hanno idea del perché intorno a loro tutti si scaldino tanto. Fortunatamente il Bluegrass, terra con molti fiumi e pochi acquitrini, dove i depositi insolitamente ricchi di calcio nel sottosuolo si infiltrano nelle acque sorgive, fondamentali per il buon bourbon e per le ossa dei puledri («tecnicamente, il calcare è composto da ossa preistoriche, per quanto la scienza su questa alchimia circolare sia incerta») non è solo la patria dei purosangue. Lo è anche di tipi come John Robert Shaw, paladino della pietra calcarea del Kentucky e autore di un'opera grandiosa e sconosciuta della letteratura americana («la sola, per quanto ne sappia io, con una prefazione in cui l'autore sostiene di essere un uomo quasi del tutto analfabeta») in cui racconta trent'anni durante i quali è stato «in cinque diverse occasioni soldato, per tre volte naufrago, per dodici mesi prigioniero di guerra e quattro volte è saltato in aria, in una serie infinita di quegli orrori indicibili che nel XIX secolo andavano sotto il nome di sventure». Molte delle quali, va detto, attribuibili alla consolidata abitudine del nostro di maneggiare esplosivi instabili e farsi contemporaneamente «un altro goccetto».

Anche gli allenatori di successo sono esseri umani felicemente idiosincratici: stravaganti parvenu come Bob Baffert, fotografabile in cima alla sua macchina rosso ciliegia in jeans e stivali da cowboy, o snob come il suo nemico John T. Ward, cavallerizzo da quattro generazioni che non perde occasione per parlare di «tradizione» e «modo giusto di fare le cose» (spoiler: non come Baffert). Se alcune superstizioni («alcol, negri e cavalli non vanno troppo d'accordo») sono nel tempo scomparse, altre, come gli spennellamenti delle zampe con improbabili unguenti, rimangono vive. Funzionino o no, ogni attenzione ravvicinata ad articolazioni così delicate (e costose) è benvenuta. D'altra parte, al di là delle competizioni ufficiali, i purosangue correranno ben poco, perché nessuno vuole perdere un investimento del genere per una zampa finita in un buco o per colpa di un serpente: «strano fato essere un simbolo, uno dei più potenti ed eterni, di tutto ciò che è selvaggio e libero, e trascorrere la maggior parte del tempo in uno spazio grande appena per riuscire a girarsi».

Con la deferenza e il distacco di una mentalità del Sud nutrita culturalmente sulla costa Est, Sullivan squaderna una storia dei cavalli che si presta a leggersi come una storia dell'evoluzione umana: «dobbiamo immaginarci quest'uomo di Cro-Magnon nella spelonca a macellare cavalli e stalloni a casaccio come avevano fatto per millenni i suoi avi, quando a un tratto nota un puledro pietrificato dalla paura. Lo trova carino e se lo porta nella grotta, dove insieme al resto della banda scopre che questi animali spaventosi, se catturati giovani, sono in realtà piuttosto docili». Il cavallo selvaggio simboleggia lo strano potere di ciò che esisteva solo in nostra assenza, ma senza il quale non saremmo più gli stessi.

Non a caso i cavalli sono l'animale più rappresentato dall'arte preistorica: «la meraviglia che suscita in noi la loro presenza - chi non l'ha mai provata, anche solo davanti a un esemplare al di là di una staccionata? - è vecchia quanto qualsiasi cosa possiamo definire nostra».

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