Cultura e Spettacoli

Quei premi da manuale ai romanzi "corretti"

A vincere Booker, Costa, National Book Award e Pulitzer nel 2020 sono stati solo libri "inclusivi"

Quei premi da manuale ai romanzi "corretti"

Nel giro di una settimana, in Italia sono stati pubblicati due romanzi che, dal punto di vista del panorama letterario internazionale, sono da considerare importanti: Chinatown interiore di Charles Yu (La nave di Teseo) e Love after love di Ingrid Persaud (e/o). Il primo ha vinto il National Book Award 2020, il secondo il Costa Award come migliore opera prima 2020. Insomma, due dei premi letterari più prestigiosi del mondo anglosassone, insieme al Man Booker Prize e al Pulitzer per la narrativa. Anche le opere che si sono aggiudicate questi ultimi due riconoscimenti nel 2020 sono a disposizione del pubblico italiano: Storia di Shuggie Bain di Douglas Stuart, che ha vinto il Booker, è stato pubblicato da Mondadori in gennaio, mentre I ragazzi della Nickel di Colson Whitehead era già uscito nel 2019 (sempre per Mondadori). Che cosa accomuna questi romanzi, a parte il fatto di essere stati giudicati i migliori? Beh, tutti corrispondono a un certo canone, ovvero trattano argomenti come l'«inclusività», la «diversità» di genere o di preferenze sessuali, la «diversità» geografica o di colore della pelle o di tradizioni, la discriminazione, l'emarginazione, i diritti calpestati o mai riconosciuti, l'immigrazione, il patriarcato, le minoranze... Se, come dicono appunto gli anglosassoni, tutto ciò rings a bell, cioè ricorda qualcosa, quel qualcosa è un certo conformismo (dilagante) nei giudizi e negli apprezzamenti che, per esempio, domina ormai dalle parti di Hollywood, specialmente quando si tratta di attribuire gli Oscar.

Con questo non si vuole dire, ovviamente, che i romanzi vincitori non siano validi dal punto di vista letterario, o che non possano piacere al grande pubblico, e non si vuole neanche dire che gli autori abbiano avuto l'ansia del politicamente corretto e abbiano cercato di rispettare il canone che esso impone; bensì che, da quell'ansia, pare sia stato assalito chi ha assegnato i premi... E che questo possa essere più di un sospetto viene confermato guardando la lista dei finalisti alle varie competizioni: per esempio, in occasione della proclamazione della cinquina del Booker 2020, molte parole (entusiaste) sono state spese sul fatto che fosse l'edizione «più diversa» di sempre, con un solo autore nato sul suolo britannico su cinque, un solo bianco, un solo non esordiente... In realtà quest'ultima, di tutte le «diversità», sarebbe l'unica ad avere un eventuale peso letterario e a poter indicare davvero uno scostamento dal mainstream; peccato che il mainstream sia abbondantemente inseguito in tutte le altre «diversità» sbandierate in precedenza. Per dire, dalla cinquina sono stati esclusi Hilary Mantel, con l'ultimo volume della trilogia sui Tudor, il monumentale Lo specchio e la luce (Fazi), costato dieci anni di lavoro; o Colum McCann, con il bellissimo Apeirogon (Feltrinelli), che ha forse il difetto di non essere filopalestinese, ma nemmeno filoisraeliano, insomma incasellarlo nel «manuale» sarebbe un problema; o Anne Tyler, con il raffinato Un ragazzo sulla soglia (Guanda). E che dire di un romanzo delicato come Nel nome del figlio. Hamnet di Maggie O'Farrell (Guanda), che pure il New York Times ha giudicato fra i dieci migliori dell'anno? Forse troppo inglese, per autrice e argomento (il figlio morto di Shakespeare), un po' come i Tudor della Mantel? Troppo poco politico?

«Inclusività», in effetti, non ce n'è. Non che la Storia di Shuggie Bain non sia autentica e commovente: l'autore, Douglas Stuart, racconta la Glasgow in cui è cresciuto, fra la classe lavoratrice arrabbiata con la Thatcher, i sussidi, la madre alcolizzata; il protagonista Shuggie è un ragazzino troppo sensibile ed effeminato per il padre barbaro e puttaniere e per i bulli rozzi e violenti del quartiere, e non basta l'amore che ha per la madre a salvare lui, e lei. Il tema dell'omosessualità, repressa e discriminata, è al centro di Love after love, ambientato a Trinidad, l'isola di Ingrid Persaud: qui i protagonisti sono Betty, vedova di un uomo violento e pericoloso che maltrattava lei e il figlio Solo, e Mr Chetan, il nuovo inquilino, che diventa un secondo padre per Solo e che, si scoprirà, nasconde il fatto di essere gay per motivi drammatici. Per inciso, anche il romanzo vincitore assoluto del Costa Award, The Mermaid of Black Conch, «La sirena di Black Conch» di Monique Roffey, premiato per la «totale originalità» (è la storia di una sirena che si innamora di un uomo) è ambientato ai Caraibi.

Se ci si sposta in America, Charles Yu e Colson Whitehead trattano il tema del razzismo: i diritti degli afroamericani negli anni '60 in I ragazzi della Nickel di Whitehead, e la posizione «scomoda» degli asiatici negli Usa in Chinatown interiore, storia ironica e brillante di Willis Wu, attore condannato al ruolo di comparsa nella serie Bianca e Nero. Perché, dice Yu, anche nelle discriminazioni c'è chi è un discriminato di serie B: in questo caso, l'«asiatico non identificato», intrappolato nella prigione (interiore, esteriore, cinematografica...) della sua origine. Ma anche tutte queste categorizzazioni, inclusioni (ed esclusioni conseguenti), analisi di pedigree e selezioni «tematiche» da parte delle giurie letterarie sono una gabbia: certo una gabbia mentale, una etichetta che non obbliga nessuno a leggere un libro, ma che premia soltanto ciò che corrisponde a certe «regole» e giudica, con il misurino, ciò che rispetta il canone (non estetico, bensì «corretto»). E però è una prigione che intrappola proprio all'interno del mondo che dovrebbe essere il trionfo della libertà, la letteratura..

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