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Quell'Impresa con cui d'Annunzio sognò un mondo libero e giusto

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Alessandro Gnocchi

nostro inviato a Trieste

P roprio all'ingresso di Disobbedisco. La rivoluzione di d'Annunzio a Fiume 1919-1920, la splendida mostra in corso a Trieste (Salone degli incanti, fino al 3 novembre) si viene inghiottiti da un treno metallico in stile futurista. Fuori, bulloni e acciaio. Dentro, velluto rosso e legno. Curata da Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale, l'esposizione è la più completa mai realizzata sulla Impresa di Fiume. L'avventura comincia nella prima sala dove è esposta la T4, la mitica automobile sulla quale il poeta guerriero giunse a Fiume per rivendicarne l'italianità e porre rimedio all'offesa della vittoria mutilata. Gli Alleati erano stati amici nella guerra e nemici nella pace, impedendo all'Italia di arrivare fino ai suoi confini storici e naturali. Duemila disertori, ai quali si uniscono volontari e avventurieri, trovano in Gabriele d'Annunzio il leader che cercano per impadronirsi di Fiume, all'epoca porto strategico nell'Adriatico. La città aveva cinquantamila abitanti, trentamila dei quali italiani. D'Annunzio, nella sua casetta rossa di Venezia, riceve i congiurati e accetta di guidare l'invasione.

A bordo della T4, senza sparare un colpo, il 12 settembre 1919 il Vate entra a Fiume. Inizia così una vicenda entusiasmante ma ancora da capire, nonostante gli studi importanti di Renzo De Felice, Francesco Perfetti, Claudia Salaris e Guerri stesso (il suo Disobbedisco, che ha ispirato la mostra, è appena uscito per Mondadori). La vulgata infatti legge l'Impresa alla luce di ciò che accadrà in seguito e la cataloga alla voce fascismo o protofascismo. In realtà, ha spiegato Guerri nella affollata lectio magistralis di giovedì sera al Museo Revoltella, molti legionari confluirono nel fascismo. E molti altri furono perseguitati dal fascismo. La differenza tra fiumanesimo e fascismo è tutta nella Carta del Carnaro, la Costituzione scritta dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris e dallo stesso d'Annunzio. Guerri ha esposto a Trieste le prime pagine manoscritte con correzioni autografe. Nonostante siano poco scenografiche, hanno la stessa potenza delle uniformi di d'Annunzio, delle bandiere, dei gonfaloni o della testa dell'aquila bicipite, stemma municipale, decapitata dai legionari il 4 novembre 1919 e ritrovata nel 2017 da Federico Simonelli al Vittoriale. È nella Carta del Carnaro che la rivoluzione di d'Annunzio perde i connotati del nazionalismo puro e semplice, diventa globale e trasforma in legge l'aspirazione a una società più libera e giusta. Della Carta del Carnaro si conosce tutto. Eppure il manoscritto in mostra offre una correzione autografa illuminante. D'Annunzio pare incerto tra due definizioni del Carnaro: Repubblica, quella vincente, è scritta sopra a Confederazione. Il modello del poeta sono la Serenissima e la Svizzera dei Cantoni. Siamo lontani mille chilometri dal nazionalismo «romano e imperiale» degli anni Trenta. Nella rivista Yoga, voce dell'avanguardia più radicale del fiumanesimo, la questione è spiegata benissimo da Guido Keller e Giovanni Comisso: giusto riprendersi Fiume e possibilmente la Dalmazia ma lo spirito italico non conosce confini. Il nazionalismo, come il capitalismo, è una dottrina imposta dalle «razze del Nord» per soffocare la magnifica varietà delle città-stato italiane. Anche il Risorgimento finisce sotto accusa. Non perché fosse sbagliato in sé. Ma perché ha preteso di centralizzare tutto e di cancellare le antiche autonomie. Il fiumanesimo invece vuole preservarle e incoraggia la formazione di una società multietnica e multiculturalista. Questa minuscola correzione, da sola, vale il viaggio per vedere l'esposizione. Questa minuscola correzione, da sola, copre di ridicolo chi ha sollevato polemiche da analfabeti sulla opportunità di fare una mostra su Fiume e dedicare una statua a Gabriele d'Annunzio (che va ad aggiungersi a quelle di Saba, Svevo e Joyce). Gli analfabeti si tengano pronti. Guerri ha infatti annunciato in conferenza stampa che il prossimo progetto sarà un museo del fascismo a Salò. Significa colmare un vuoto inspiegabile o meglio spiegabile con la cappa di conformismo che ha quasi ucciso la cultura italiana.

Di recente il Vittoriale ha restaurato migliaia di lastre fotografiche. Sono quindi inedite e documentano la vita di tutti i giorni di una città sotto assedio ma entusiasta. I discorsi in piazza, gli arditi, d'Annunzio che brinda con il famigerato cherry ribattezzato «Sangue Morlacco», la squadra di calcio in maglia azzurra con scudetto tricolore sul petto (sì, la maglia della nazionale italiana nasce a Fiume), lo Stato maggiore al completo con belle signore e d'Annunzio che fa le linguacce, tantissime donne, che avevano un posto d'onore non solo nel cuore di d'Annunzio. La Carta del Carnaro, infatti, concedeva loro non solo il suffragio ma anche la eleggibilità a qualsiasi carica.

Quando si esce dal treno futurista alla luce abbagliante di una Trieste bella da straziare il cuore, ci si imbatte nella gigantesca bandiera donata a d'Annunzio nel 1916 dalla triestina Olga Levi Brunner. Il poeta le promise che, dopo la liberazione della città, avrebbe issato il vessillo sul campanile di San Giusto. Nel 1917 fu stesa sul corpo e sul feretro del maggiore Giovanni Randaccio. La bandiera insanguinata divenne un simbolo. Nel maggio 1919, d'Annunzio la dispiegò al Campidoglio come testimonianza dei caduti per annettere le terre adriatiche. A Fiume fu esposta più volte durante i discorsi pubblici del poeta.

Infine, al termine dell'impresa, dopo il Natale di sangue del 1920, quando Giovanni Giolitti ordinò all'esercito di attaccare d'Annunzio, la bandiera fu srotolata per coprire i cadaveri dei legionari italiani uccisi dall'esercito regolare italiano. Ora, finalmente, la bandiera è tornata a casa.

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