Scarpe, borse, star: Sofia Coppola se ne intende, perché il mondo dei ricchi le appartiene da quand'era in fasce. Così la 42enne figlia di Francis Ford, che ormai, a prescindere dal padre, s'è fatta un solido nome come attrice, produttrice, sceneggiatrice e regista - l'unica donna americana a vincere il Leone d'Oro, a Venezia, con Somewhere (2011) e la prima a ottenere l'Oscar per la migliore sceneggiatura originale del suo Lost in Translation (2004) -, promana chic e discrezione mentre presenta The Bling Ring (dal 26, distribuisce Lucky Red), smaltato film sul nulla di sette teenagers, che tra il 2008 e il 2009 saccheggiarono le ville dei Vip di Hollywood, rubando vestiti e accessori per 3 milioni di dollari. Tra l'altro, monitorando le star su Facebook: quando i divi erano fuori città, la «gang del brillocco» entrava in azione indisturbata. Non un filo di trucco sulla bocca a cuore, maglietta marinara a righe blu in stile parigino, la newyorchese Sofia Carmina si comporta da europea doc: vive perlopiù a Parigi, dove collabora con le griffes più quotate e condanna la cultura pop globalizzata.
«Bling Ring» racconta una storia vera: quale spunto della vicenda l'ha attratta, in particolare?
«Avevo letto un articolo di Nancy Jo Sales su Vanity Fair, pensando che pareva la trama d'un film: ragazzi giovani e carini che s'introducevano nelle ville delle star, per svaligiarle. Sembrava che non si rendessero conto d'aver agito male e che fossero interessati soltanto alla celebrità ottenuta con le rapine. Una storia che dice molto sulla nostra epoca e su come crescono i ragazzi nel mondo di Facebook e di Twitter».
Da madre di Romy e Cosima, (avute dal cantante dei Phoenix Thomas Mars), come giudica certe devianze? Nel suo film i giovani protagonisti sniffano coca, vendono merce rubata, si postano sui social network completamente sballati.
«Cerco di non giudicare questi ragazzi, anche se non sto dalla parte loro. Li mostro com'erano al momento dei fatti, senza esprimere un giudizio. Queste persone sono state condannate al carcere, da uno a quattro anni, ma a me interessava di più mettere a fuoco un sentire diffuso. La loro ossessione per il mondo delle star e dei reality, che è in continuo aumento da quand'è scoppiata la crisi, era l'elemento più attraente».
È singolare, nella vita di questi teenagers, la totale assenza di genitori e scuola...
«È vero: la storia ha genitori assenti, o poco coinvolti. E parla proprio di questo: le famiglie non sono di sostegno. Ma non voglio generalizzare. Non tutti gli adolescenti americani sono così. Ci sono tanti altri adolescenti, che hanno famiglie con dei valori».
È attratta dal pianeta adolescente: ne «Le vergini suicide» circolava il desiderio nell'età acerba; in «Marie Antoinette», un'adolescenza aristocratica; qui, invece, parla della decadenza d'una certa cultura giovanile. C'è un cambio di passo?
«Si tratta di epoche diverse. Qui racconto che cosa sta succedendo nell'attuale cultura pop e penso che questo film racchiuda una forma di decadenza. Per me, questa storia ha quasi aspetti da fantascienza e il finale è da film dell'orrore... Il primo passo per prendere consapevolezza di quanto sta succedendo è fare un film come il mio. In ogni generazione gli adulti sottolineano che i giovani non hanno i valori dei padri. Però qui il tema è aggiornato dall'ansia moderna di condividere tutto. Anche vite che non ci appartengono».
Ha girato, tra l'altro, nella villa di Paris Hilton, derubata come Orlando Bloom e Lindsay Lohan. È vero che tiene la chiave sotto lo zerbino, come si vede nel film?
«Ora non lo fa più! Il fatto è che quella cerchia privilegiata di ricchi losangelini si sente protetta nella sua oasi di benessere».
Lavora nel mondo della moda e, nel film, molte marche si vedono in modo ostentato: si tratta di «product placement»?
«Le varie griffes mi hanno dato gli oggetti, ma non ho preso finanziamenti da loro.
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