"Racconto l'America oltre l'hamburger (ma cerco l'Italia)"

Il conduttore di "Little big Italy" in un libro svela gli Usa a tavola oltre i luoghi comuni

"Racconto l'America oltre l'hamburger (ma cerco l'Italia)"

Little big America. Quella di Francesco Panella, il Cristoforo Colombo dell'Amatriciana. Ristoratore romano reso famoso, oltre che dai suoi locali - a Roma e a New York - dalla trasmissione televisiva Little Big Italy (tre stagioni e trenta puntate in onda su Nove, riproposte su DPlay), che mette in gara tre italiani residenti in una città straniera e i loro ristoranti italiani preferiti, con tutto il loro armamentario di cliché, tradizioni stinte e cartoline macchiate di ragù.

Little big Italy è sospesa, viaggiare non si può, i ristoranti sono quasi ovunque chiusi. E lui si è inventato un'altra trasmissione a misura di Covid, Riaccendiamo i fuochi, in cui entra sotto copertura e con telecamere nascoste in locali a conduzione familiare cercando di scoprirne i difetti per correggerli.

Francesco lo conosco da vent'anni. È capace, spiritoso, come si dice a Roma svejo. Ha un solo difetto: è della Lazio. Pazienza. Da una trattoria di famiglia a Trastevere, l'Antica Pesa, è arrivato ad avere un locale a Brooklyn e uno a Manhattan che, prima della pandemia, andavano a gonfie vele. Lui però si ritiene prima di tutto un cittadino del mondo, un curioso, un imprenditore, un cacciatore di storie. Quelle che ha voluto mettere nel suo ultimo libro.

Ecco Francesco, che cos'è questo libro?

«Si chiama Forse non tutti sanno che in America (Newton Compton editore, pagg. 288, euro 10, ndr) e voglio smentire il punto di vista europeo secondo cui la gastronomia americana è formata soltanto da junk food. Hamburger scadenti, hot dog, ettolitri di bibite gassate».

E invece?

«Invece esiste un mondo pazzesco, parallelo, di eccellenze incredibili».

E come lo racconti?

«Lo racconto attraverso trenta storie, innovative e ispirazionali. Ognuna è una vicenda di intelligenza e abnegazione, umiltà, a volte di eroismo silente. Una favola. E infatti alla fine di ognuna metto la mia morale».

Le ultime elezioni hanno evidenziato che esistono due Americhe. È così anche a tavola?

«Esistono tante Americhe, non solo due. Il mio libro è articolato in quattro aree geografiche, come fosse un viaggio. Parto dal Nord-Est, dove i piatti sono ancora molto legati alle tradizioni dei coloni, attraverso il Midwest, che trae le sue radici culinarie soprattutto dal Vecchio continente e dai nativi, poi il Sud multietnico e l'Ovest, che fa cucina ispirata dai pionieri e attenta alla sostenibilità. Los Angeles è panasiatica e green, a New York si cerca la soddisfazione. Il centro è barbecue».

E quanta Italia c'è in questo viaggio?

«Ogni volta che viaggio io in qualche modo cerco l'Italia. La cultura del cibo è il nostro, il mio benchmark».

Le differenze principali tra Usa e Italia a tavola?

«Anche qui luoghi comuni da sfatare. Noi pensiamo che gli americani vadano al ristorante solo per mangiare e socializzare. E invece chiedono, vogliono capire, imparare. Poi, in termini di sostenibilità gli Stati Uniti sono molto avanti a noi, negli stati del Midwest si fa da cento anni, non per fare i fenomeni. Poi certo, noi abbiamo una bioidentità molto forte, grazie alla quale è facile essere creativi».

Però c'è anche un'America healthy, salutare...

«Per me molti frequentano le palestre non per dimagrire ma per poter mangiare di più».

Ti senti l'ambasciatore della cucina italiana nel mondo?

«Sento soprattutto la responsabilità di trasmettere il giusto messaggio sulla nostra cucina».

Però dalla tua trasmissione si capisce che sono gli italiani all'estero i primi ad avere un'idea sbagliata della nostra cucina contemporanea...

«Una volta che vivi in un contesto non tuo, perdi un po' la barra, è normale...».

Troppo buono, France'. Dài che qualche volta si capisce che ti trattieni...

«Certo, quando vedo sfondoni clamorosi».

Il peggiore di sempre?

«Una spigola al sale servita con il cappuccino, vicino a Phoenix, in Arizona».

Non dobbiamo avere pietà?

«Mah dipende. Se mi dai una pasta al sugo con troppo aglio ma dietro c'è una bella storia non riesco a infierire. Mi commuovo».

Anche perché se un piatto è ortodosso ma non si vende...

«Ma certo, ci sono scelte commerciali. C'è una sottile linea che definisce la sopravvivenza del ristorante. Ma l'importante è l'onestà intellettuale. Tu cambi e spieghi. Mi rode se dici cazzate, se sfrutti l'Italian sounding».

Qual è l'errore che ancora fa la cucina italiana nel mondo?

«Deve migliorare la comunicazione, il racconto».

Per chiudere, chi sei?

«Uno che vive negli Usa ma ha il cuore in Italia».

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