Il rap lo fa (solo se vuole)

Insomma la musica ora punta soprattutto al centro. Della società. Dei social. Dei sogni, persino, e meglio se sono di lusso

Il rap lo fa (solo se vuole)

Insomma la musica ora punta soprattutto al centro. Della società. Dei social. Dei sogni, persino, e meglio se sono di lusso. Quindi si allontana sempre più dalla periferia, dall'universo dei sogni interrotti, degli emarginati, delle partite perse. La musica leggera, non a caso detta popolare, è sempre stata il diario delle sconfitte e delle rivincite, un diario che ha tenuto il tempo delle evoluzioni e delle rivoluzioni. Il rock'n'roll. Il punk. Il grunge, figurarsi. E infine il rap ovviamente. Poi il contrordine. Senza un perché. Per carità, il pop è rimasto il luogo scintillante e spesso vacuo, ossia il sabato sera di ogni generazione, come d'altronde prescrive la sua ragione sociale. Ma, a parte qualche frammento di hip hop, le altre pertinenze della musica si sono avvizzite, si è spenta la voglia ecumenica di illuminare gli sconfitti, di dare un senso ribelle a storie che non ce l'hanno (come cantava Vasco). Dall'ombelico del mondo al mondo dell'ombelico. La nuova generazione, quella delle canzoni da cameretta, mediamente esplora il proprio ombelico con brevi poesie instant che hanno la scadenza di uno yogurt. Difficile che qualcuna di queste resista nel tempo e, soprattutto, nella memoria. La canzone popolare sembra la summa di piccole storie insignificanti e tendenzialmente tutte copiaincollate. Insomma è un flusso gigantesco e inarrestabile, un Gange talvolta limaccioso che non lascia tracce nel racconto né tanto meno incendia discussioni. Ma per fortuna c'è il rap. Un pezzo del rap. L'anima letteraria della musica popolare oggi è qui, in quelli che, non a caso, sono considerati i nuovi cantautori perché sanno raccontare il dolore asciutto, senza retorica, senza scintillio di ipocrisie. I rapper vengono dalla periferia e, quelli veri, quelli che non sono già in coda nel discount del pop, lì sono rimasti, se non altro con la sensibilità. Attenzione, tutto il mondo è rap e ogni paese ha il proprio rap con i propri codici. Ma qui in Italia ora, dopo vent'anni di evoluzione, dopo esser passati attraverso le critiche feroci a «quelli che benpensano» (firmate da un inimitabile Frankie Hi Nrg) siamo arrivati a romanzi popolari, a tragedie, a novelle, a racconti in rima che arrivano proprio dove non arriva quasi nessun altro: tra gli ultimi, gli emarginati, le cittadinanze senza reddito ma pure speranze. Tanto per dire, in «Stavo pensando a te» la sensibilità ispida di Fabri Fibra disegna le ore di un ragazzo senza ancoraggio («Che figata fumare in spiaggia con i draghi che volano») che ripensa «a quella sera senza condom» e, nel fallimento dei sogni, ricorda che «promettevo di portarti via quando l'auto nemmeno partiva». Sono storie. Sono istantanee che però durano.

Così come quelle di Marracash che canta ai (e dei) «ragazzi disastrati, venuti su dritti, che vivono in case cadenti, tra le rovine delle loro famiglie». Il brano si intitola «Laurea ad honorem» e un po' se la meritano anche lui e quei pochi altri che usano la lingua del rap per arricchire il linguaggio della letteratura.

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