La ribelle bionda e spigolosa che portò in scena il coraggio

È difficile, quasi impossibile dire addio alla Melato. E pensare che non rivedremo più dalla pagina dilatata del grande schermo la sua esile silhouette

La ribelle bionda e spigolosa che portò in scena il coraggio

È difficile, quasi impossibile dire addio a Mariangela Melato. E pensare che non rivedremo più dalla pagina dilatata del grande schermo o risucchiata dalla ribalta tra gli applausi frenetici della platea la sua esile silhouette, miracolosamente intatta nonostante il trascorrere degli anni, mentre si inchina al pubblico. Agitando quella minuscola zazzera bionda che, agli inizi della sua carriera, Luca Ronconi in un film mai realizzato intitolato Pinocchia voleva tramite lei regalare all'immortale burattino di Collodi. Ce l'ha portata via una malattia tremenda, una di quelle contro cui è impossibile vincere anche se lei, con quel leggendario coraggio che mai si sottrasse ad autentiche sfide, finse ad ogni costo di sottovalutare apparendo di nuovo, tra una pausa e l'altra di quel male che non le lasciava tregua, nel suo luogo d'elezione: il palcoscenico.

Dove era entrata quasi di soppiatto nei frenetici anni Sessanta dopo aver tentato le vie impervie della pittura e addirittura della cartellonistica nella sua città, Milano, cui rimase legata tutta la vita. Dopo i corsi all'Accademia dei Filodrammatici, per primo fu il compianto Fantasio Piccoli a farla emigrare a Bolzano dove Carlo Terron, dopo una sola audizione, la volle tra gli interpreti della sua pièce Binario cieco. Uno spettacolo che fortuna volle fosse visto da Luchino Visconti il quale subito, dopo una piccola parte nella Monaca di Monza di Testori, la incluse nel cast di un'altra novità italiana. Ossia in quella Inserzione scritta dalla sua amica di vecchia data Natalia Ginzburg in cui la grazia acerba e spigolosa della nuova attrice formava un bizzarro contrasto con l'irrefrenabile loquela di Adriana Asti.

Prima che, sull'onda di quella scoperta che rivoluzionò le acque chete del teatro italiano di quegli anni, di lei non si accorse Dario Fo travestendola un'altra volta da monaca. Ma stavolta tutta bianca di candore, in Settimo, ruba un po' meno e l'esordiente Luca Ronconi, dopo la prova generale dei Lunatici, le affidasse il ruolo di Olimpia, principessa sfortunata ma tutta sarcasmo e sfrenata passione per gli armigeri nell'Orlando furioso. Piccoli grandi exploit che a lungo andare non potevano lasciare indifferente anche il cinema. Che, intimorito ma soprattutto affascinato dall'estro irrefrenabile della nuova attrice, così singolare con quel volto asimmetrico dominato dai grandi occhi a triangolo e dal suo incedere tutto ironia, leggerezza e incantevole charme, dapprima le affidò ruoli di carattere.

Tra cui, indimenticabile, quello della soubrette spagnola in Basta guardarla di Salce prima che Elio Petri la laureasse in La classe operaia va in Paradiso, dov'era l'operaia che fa girar la testa a Volonté e la signora Angelica Wertmüller detta Lina di prepotenza la ficcasse a far da spalla - ma quale spalla! - a Giannini nel film che li lanciò entrambi Mimì metallurgico ferito nell'onore (1972), seguito a ruota da Film d'amore e d'anarchia. Nonché dal tassello finale di quella strana involontaria trilogia Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto. Poi, com'era logico, i film si succedettero a raffica, da Caro Michele di Monicelli dove Melato tornò al mondo della Ginzburg a Dimenticare Venezia di Brusati (1979) fiasco in Italia ma trionfo a Parigi dov'era un'eccentrica capitana d'industria. Anche se nell'ultimo decennio il cinema, si direbbe allarmato dalla sua prorompente vitalità, a suo discapito finì per trascurarla. A tutto vantaggio, stavolta, del teatro che di prepotenza la impose tra le massime star.

Con lo Stabile di Genova in pole position che dapprima montò in suo onore una splendida Dame de chez Maxime, poi la impose come tragédienne in Fedra e dopo i successi conseguiti altrove nei ruoli più disparati da Medea a Caterina nella Bisbetica domata di prepotenza la spinse verso la matriarca di Chi ha paura di Virginia Woolf? e la vivandiera di Madre Coraggio.

Prima di ridonarla a Ronconi, il suo maestro di sempre, che in Centaura prima e in Nora alla prova poi definitivamente la consacrò tra le Divine della prosa, rinnovando per lei i fasti della primadonna, che si pensavano relegati al passato dai tempi belli di Eleonora Duse.

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