Rivero svolta con il realismo «on the road»

Il leitmotiv della gran parte delle opere in concorso sembra, finor, la scelta di attori non professionisti. Quasi che la docu-fiction sia l'erede designata per chi voglia attraverso una ricerca, il più realistica possibile, sondare i nuovi orizzonti della settimana arte. Dopo le prove del nostro Giovannesi (Alì ha gli occhi azzurri), del russo Fedorchenko (Le spose celesti dei Mari della pianura) e dell'americano Larry Clark (Marfa girl), anche il messicano Enrique Rivero mette davanti all'obiettivo persone prese dalla strada. In questo caso non si tratta di una strada qualsiasi. Mai morire (il titolo è in italiano anche nella versione originale soltanto perché al regista «suonava bene» l'espressione) è ambientato (e ispirato) dalla poco conosciuta regione di Xochimilco. Una sorta di pianura pontina dove la civiltà contadina segue con fervore quasi religioso i ritmi e le voci dell'acqua.
Rivero è rimasto affascinato da questi luoghi senza tempo e ci offre una storia raccontatagli da una donna di questa zona. Da lei ha imparato una lezione fondamentale: la morte è solo un passo in avanti. Oltre il quale chi rimane viene confortato dalla luce del ricordo dei trapassati. Insomma è un'esperienza naturale che non va demonizzata. E così, attraverso una straordinaria fotografia, veniamo a conoscere oltre alla regione di Xochimilco anche Chayo (Margarita Saldana), che interrompe il suo lavoro di colf nella grande città per accompagnare la madre nel suo ultimo «passaggio». La salda tenuta delle convinzioni di Chayo e dei suoi legami vacilla soltanto durante la notte.

E Rivero muove con cura la grammatica dei sogni in cui vengono fuori le debolezze e le ansie di chi solo in apparenza si sente pronto a un simile sforzo.
Per il resto il giovane regista messicano affida a un robusto simbolismo e alla bellezza dei luoghi il compito di fare da coro a questa tragedia familiare in un universo contadino senza tempo.

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