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Il romanzo "americano" di Simenon che dà una lezione agli psichiatri

Torna "La mano", un capolavoro per la capacità di capire la mente umana

Il romanzo "americano" di Simenon che dà una lezione agli psichiatri

Il 3 dicembre 1968, la rivista ginevrina Médecine et Hygiène ospita un dibattito sul cromosoma Y supplementare, quello che sarebbe responsabile delle tendenze criminali nei soggetti maschi. Ci sono un avvocato, un giudice di Corte di Cassazione, un direttore dell'istituto di medicina genetica e un direttore dell'istituto di medicina legale. E c'è anche uno scrittore: Georges Simenon. Il 5 giugno dello stesso anno, Simenon si era sottoposto a una sorta di perizia psichiatrica a domicilio nel suo «bunker», come lo chiamava lui, cioè la sontuosa dimora di Épalinges, dall'altra parte del lago rispetto a Ginevra, sempre per iniziativa di Médecine et Hygiène. Ci si misero in cinque, a sfruculiarlo, ma pare che lui seppe tacere su ciò di cui voleva tacere, anche se parlò per una giornata intera (al netto dei segreti professionali, il resoconto dell'esame è riportato in Georges Simenon di Alain Bertrand, 1988).

Fra le altre cose disse, a proposito del padre Désiré: «Malgrado la mediocrità della nostra vita, egli si sentiva in pace con sé stesso e con gli altri. H o la sicurezza che mio padre fosse un uomo felice ed equilibrato: un saggio... a causa di questi motivi (la mancata carriera, ndr) per vent'anni mio padre si è lasciato rimproverare da mia madre anche in modo piuttosto violento... Lui non rispondeva, abbassava la testa e non le disse mai: È perché sono malato. È morto a quarantaquattro anni d'infarto...».

Facciamo un altro piccolo passo a ritroso, ma restando nel 1968. Il 29 aprile Simenon termina a Épalinges La main, un roman dur ambientato negli Stati Uniti, fra il Connecticut e New York. Un romanzo che si dipana nell'auto-esame psichico dell'io narrante. E in cui il personaggio chiave, pur nella sua marginalità di ottantenne malato che si ostina a impaginare da solo un piccolo settimanale, è il padre di Donald Dodd, il narratore di mezza età, e ricorda molto il padre di Simenon. Rappresenta, cioè, l'aurea mediocritas di chi sta nel suo, in disparte, senza rivendicazioni, senza ambizioni se non quella di continuare a essere sé stesso. Insomma, l'opposto del figlio perennemente insoddisfatto, sensibile ai giudizi degli altri (anche a quelli non espressi che lui attribuisce loro per alimentare il proprio complesso di persecuzione), invidioso di chi ha successo e persino di chi non lo cerca, come il saggio genitore.

La mano che ora esce per la prima volta in italiano (Adelphi, pagg. 172, euro 18, traduzione di Simona Mambrini) e che stringe l'anima dell'avvocato di provincia Donald Dodd è quella di Mona, moglie di Ray Sanders, suo vecchio amico dai tempi dell'università. Ray è un brillante pubblicitario che vive e lavora a New York, sicuro di sé fino all'arroganza e sempre a caccia di nuove femmine. Donald, sposato da 17 anni con la glaciale Isabel, padre di due figlie adolescenti che studiano in un'altra cittadina, vorrebbe tanto (almeno ogni tanto) essere come lui...

Un sabato sera a Yellow Rock Farm, la residenza dei Dodd, giungono inattesi i Sanders. C'è una festa dagli Ashbridge, venite anche voi, propone Donald. Proposta accolta. Fra un bicchiere e una tartina, Ray trova il modo di appartarsi per dare qualche colpetto a Patricia, la giovane consorte del vecchio padrone di casa. E Donald li vede, non visto. Soltanto lui? Isabel e Mona no? E non sospettano nulla? Chissà. Passata la festa, gabbato il cornuto, tutti a casa. Ma si è scatenata una bufera di neve. A un certo punto l'auto non va più. I quattro sono molto vicini a Yellow Rock Farm, quindi proseguono a piedi. Per farla breve: qualcuno muore. Ma dire chi e dire come significherebbe bruciare il romanzo. E togliere a Donald Dodd il macabro piacere di raccontarcelo.

Nonché togliere al lettore il non macabro, anzi sottilissimo piacere di verificare quanto Georges Simenon avesse da insegnare agli psichiatri che, circa un mese dopo, l'avrebbero messo sotto torchio. Senza farlo confessare.

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