Diversamente maggiorata, quando Sophia Loren e Gina Lollobrigida dettavano la legge delle curve, Rossana Podestà, morta ieri a Roma, a 79 anni, lascia un vuoto di nicchia nel famedio divistico.
Sessanta film, registi importanti, bella e famosa, a un certo punto dei suoi trentanove anni smise per noia. Non ne poteva più dei servizi fotografici e della routine da attrice sempre in pista. «Penso di aver sbagliato tutto facendo il cinema. L'ho sempre snobbato. Volevo solo guardare», ha detto questa donna fuori dal comune, che ha passato trent'anni con Walter Bonatti, straordinario alpinista cui si deve il successo del K2. Un eccellente esploratore dei confini dell'uomo, scomparso nel 2011 tra molti dolori. Soprattutto di lei, perché non le fu permesso di condividere gli ultimi istanti della sua vita, come la diva racconta nel libro Walter Bonatti. Una vita libera (Rizzoli). I due, provenienti da mondi lontanissimi, non erano sposati e tanto bastò ai medici d'una clinica privata romana per non permettere a Rossana di tenere la mano a Walter. S'erano conosciuti come in una favola: lui che nel 1980 legge sul giornale che lei voleva andare su un'isola deserta con Bonatti e quindi le chiede un appuntamento. Lei che accetta subito. Lui che sbaglia il luogo dell'appuntamento, a Roma, presentandosi dopo due ore. «Sarai un grande esploratore, ma come uomo non sei affidabile», commentò lei, che avrebbe imparato ad arrampicarsi, ad andare nel deserto, a scoprire la natura, al seguito di quel tipo singolare.
Strana pure lei, Rossana, che scelse il nome d'arte ispirandosi alle caramelle ripiene d'una marca scomparsa. Avrebbe potuto sfruttare fino all'ultimo, la tripolina Carla Dora, benestante figlia di un industriale, quel fisico dirompente ma chic, che le fruttò nudi astrologici su Playboy, copertine su Life e sui rotocalchi di moda tra i Cinquanta e i Sessanta, quando agli uomini ancora piacevano le donne. Aveva debuttato con Léonide Moguy a sedici anni appena, col film Domani è un altro giorno e Steno, Monicelli, Zurlini se la contendevano perché sexy, ma elegante e persino brava nei film del «realismo rosa». Convincente in tunica e toupet, a vent'anni è lei la regina dei «sandaloni», che gli americani chiamavano «peplum», quando giravano sul Tevere: da Elena di Troia, nell'omonimo kolossal di Robert Wise, che nel 1956 la trasformò in boccoluta eroina, dopo averla preferita a Liz Taylor e Ava Gardner, a Nausicaa, nell'Ulisse di Mario Camerini, con lei che seduce Kirk Douglas mostrandogli le spalle nude, la Podestà va sulle tracce delle star hollywoodiane.
Tanto che Robert Aldrich la pretende per Sodoma e Gomorra (1962). All'epoca, al fianco d'una diva ci voleva un produttore: se la Loren ha Carlo Ponti e Silvana Mangano conta su de Laurentiis, c'è il regista e producer Marco Vicario per lei. Diventerà suo marito nel 1954, mentre nasce la tv, e, come da copione, comincerà a disegnarle un'altra carriera. Basta pupattole formato mitologico: ci vogliono i Sette uomini d'oro (1965), film scritto e prodotto da Vicario, per far scoprire al grande pubblico che Rossana ha i numeri per sfondare come bomba sexy: caschetto nero, pelliccia d'ermellino sopra il nudo e lei diventa Georgia, una pupa da colpo grosso. «Marco mi tolse dal peplo e mi fece imboccare il filone della femme fatale. Era lui a curarmi il look: capelli a caschetto e attillatissime tute di pizzo. Meglio dei busti e delle ciglia incollate dei film americani», commentava Rossana. Suo marito aveva ragione: il film incassò l'equivalente di 20 milioni di euro e ci fu un sequel nel 1966.
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