da Venezia
La regista Ana Lily Amirpour iraniana d'origine, inglese di nascita, californiana di rinascita nell'autobiografia allegata al catalogo della Mostra del cinema di Venezia scrive che «se la si sventra, dal suo interno escono sangue, budella e idee». Sulle ultime, ieri, alla proiezione della sua ferocissima favola distopica The Bad Batch, molti hanno avuto qualche dubbio. Il film, che pure conta su un cast stellare (tra cui un Keanu Reeves irriconoscibile perché gonfio, un Jim Carrey irriconoscibile perché deturpato e una Suki Waterhouse troppo bella anche se amputata di una gamba e un braccio, segati via alla seconda scena), deve troppo a troppe pellicole post-apocalittiche per essere originale, e non si capisce se sono più le citazioni o gli scopiazzamenti. Ma sul sangue e le budella, la regista, già nota come la «Quentin Tarantino in gonnella», ha ragione. La storia, tra lo splatter pulp e il western fantascientifico, racconta di un gruppo di reietti della società, The Bad Batch appunto, il «lotto difettoso», che in una sordida regione del Texas cerca di sopravvivere in vari modi. Tra i quali: tenere incatenate persone a cui mutilare arti da mangiare sempre freschi (vi ricordate The Road?), barattare la vita di una madre per un coniglietto (che comunque finirà arrosto), sparare e accoltellare a vista, tatuarsi sul braccio «Suicide», somministrare francobolli di acido come fossero ostie... Selvaggi, cannibali e torbidi sentimenti. E così le placide acque del Lido s'insozzano di sangue.
Spesso gli psicopatici sono i cattivi preferiti dai festival. Il tempo di passare dalla Sala Darsena alla Sala Giardino e la mattinata, ieri, si è ulteriormente oscurata: di scena Dark Night, sorta di finto documentario di Tim Sutton, presentato l'anno scorso al Sundance Film festival e giudicato dal New Yorker (ma qualcuno ieri a Venezia dissentiva) tra i dieci migliori film dell'anno. In un lentissimo, disturbante, crescendo verso un atto di indicibile violenza (che però non ci mostra), la pellicola come un colpo di fucile d'assalto va al cuore della paura di tutti noi. Per arrivare alla strage del 2012 in un cinema di Aurora, Colorado, durante la proiezione di The Dark Knight (12 morti...), il regista firma il suo personale j'accuse contro le armi «libere» in America, e filma l'inevitabile susseguirsi di eventi che, in una schizofrenica giornata di ordinaria follia, culmina nel massacro all'interno di una multisala. Un serial killer al (festival del) cinema.
In fondo, era la giornata giusta. Ieri a Venezia si discuteva della stroncatura che il quotidiano Libération ha spedito in mazzetta alla Mostra: nell'articolo intitolato non senza macabra ironia Diluvio di calamità, l'inviato al Lido Julien Gester ha scritto che la rassegna italiana non ha una linea precisa, se non quella di sangue tracciata da «un fiume di film crudeli e morbosi». Bang bang. E forse - al netto di un'ipocrisia tutta francese che fino a ieri premiava con Palme d'oro il meglio del peggiore pulp e oggi massacra il «reazionario» Mel Gibson perché usa l'obiezione di coscienza per fare un film che onora i guerrieri - il giornale francese qualche ragione ce l'ha. Nel pranzo di mezzogiorno di fuoco coi giornalisti, ieri, il direttore della Mostra Alberto Barbera ha risposto con due battute. La prima è che da tanto tempo non legge più Libération. La seconda è che «il cinema condivide lo stesso ameno (è un'ironia, ndr) mondo in cui viviamo». E così se il mondo brulica di mostri, terroristi e serial killer, il cinema della Mostra ha (di conseguenza?) in cartellone film come l'opera al rosso di Mel Gibson, dove scorre più sangue che nella Passione di Cristo. Come il cupo Brimstone di Martin Koolhoven, dove si impiccano (due) donne in primo piano, si mozzano (due) lingue in cinemascope, si inchiavardano maschere di costrizione, si smaltiscono cadaveri gettandoli ai porci, si accoltella, si spara, si tortura... O come il coreano Miljeong di Kim Jeewoon, dove si preparano attentati dinamitardi, si tortura (anche qui...), si mozzano lingue (anche qui...), si amputano dita (anche qui...).
Anche qui a Venezia, che è una desolata regione del mondo come tutte le altre, solo più blindata per la paura di attacchi kamikaze, è inevitabile una minima dose cinematografica di violenza, proporzionale a quella reale che ci dobbiamo assorbire ogni giorno.
In fondo, l'unico effetto collaterale è il rischio di macchiarsi lo smoking. Tanto più che il festival si chiuderà, sabato, con (l'attesissimo...) bagno di sangue de I magnifici sette di Antoine Fuqua. Critici, moralisti e giornalisti francesi sono avvisati.
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